Immaginate il corpo di Leonida. Leonida, sì. Quello delle Termopili. Oggi Leonida ha questo corpo vispo, classe di ferro 1941. Capelli grigi, dedalici, cravatte audaci, occhiali che preludono all’affondo, al j’accuse, al poema imprecatorio. Leonida è passato da Lotta Continua e da Maurizio Mosca, da Adriano Sofri alla Juventus, dall’impegno politico all’esercizio della rêverie tra i libri più belli del secolo passato. Leonida, oggi, si chiama Giampiero Mughini e le Termopili sono l’ultimo lembo di libertà prima dell’avanzata dell’“armata digitale”, che, dice lui, “non è usa ‘fare prigionieri’”. I fautori delle sorti progressive della tecnica digitale – ovvero, del rimbambimento collettivo via tablet e social – “distruggono e uccidono. Hanno distrutto l’industria discografica pure talmente vitale nei sessanta e settanta. Hanno distrutto e stanno distruggendo la fotografia analogica e i fotografi che la praticavano, le aziende editoriali che pubblicano quotidiani e settimanali di carta, noi giornalisti che dello scrivere su quei giornali ci campavamo”. Il dardo che Mughini scaglia sulla fronte dell’era tecnologica è un libro.
Un libro di carta. Ovvio. Una proiettile salutare. D’eleganza plurima. Il libro s’intitola Che profumo quei libri (Bompiani 2018, pp.208, euro 17,00) e se fosse semplicemente una ramanzina contro i tempi che avanzano, una melanconica ode sul tempo perduto, sarebbe una rottura di palle così. Il libro, invece, dopo aver ripetuto – e va ripetuto fino a far annoiare i muri – che la grandezza di un libro è inversamente proporzionale al suo successo editoriale (“molti dei libri capitali della nostra storia culturale all’inizio non ebbero mercato, furono patrimonio di pochi”) e che chi pensa che le vendite siano il metro di misura del genio è un cretino (“il parametro dominante nel valutare la riuscita e l’importanza di un libro” è “la quantità di copie vendute, il figurare nella top ten della settimana o del mese. Un parametro che non domina soltanto i conti dell’industria editoriale, il che sarebbe sacrosanto. Domina il giudizio culturale corrente, e questo è grave”), fa qualcosa di più. Stila – lo dice il sottotitolo, in piccolo – “la biblioteca ideale di un figlio del Novecento”. Ergo: siamo al cospetto del ‘canone Mughini’, di un decalogo mughiniano per vivere bibliograficamente felici. Nell’alcova di ogni libro – cullato come un cucciolo d’uomo – soprattutto, c’è la vita. Si legge un libro come si legge la mano: per imparare un destino, impetrare fortuna e ricordare il passato. Così fa Mughini. Bibliomantica, se vi va. L’arte di trarre auspici e memorie auscultando il rumore delle pagine che frusciano. Scritto con genio narrativo, il ‘canone Mughini’ parte dal Pascoli (incipit delizioso: “Se alla maniera di quel filo d’acciaio teso tra le Twin Towers di New York, e su cui nel 1974 camminò più volte avanti e indietro il funambolo francese Philippe Petit, tendeste un filo tra l’opera di Giacomo Leopardi e la grande poesia del Novecento italiano, su quel filo passeggerebbe e danzerebbe a congiungere due epoche Myricae, il libro di Giovanni Pascoli i cui ‘frammenti’ appaiono per la prima volta nel 1891, un’edizione di poche decine di copie piccoline di formato ed esigue di pagine cui aveva fatto da occasione il matrimonio di due suoi amici”), si appoggia a Italo Svevo, Federico De Roberto, Luigi Pirandello, Curzio Malaparte (“E comunque se c’è un intellettuale italiano che il Novecento europeo ce l’aveva in tasca e se lo portava appresso era lui”), parla con commozione delle Lettere dal carcere di Gramsci (“Uno di quei libri di cui puoi dire senza alcuna retorica che ti cambiano la vita, che lasciano per sempre le loro stimmate”) e di Dieci inverni di Franco Fortini (“Le strade ideali di Fortini e la mia si sono biforcate, non che per questo cessasse l’affetto e la venerazione che avevo per lui”), va in frittata per L’uovo alla kok di Aldo Buzzi (“Buzzi è morto a Milano nell’ottobre 2009. Aveva toccato i 99 anni. Ho ancora il rimorso di non avere avuto il tempo di andare a trovarlo per la prima volta, un paio di mesi prima, come pure gli avevo promesso telefonicamente e come ero strafelice di fare”). Poi, è chiaro, ci sono i ‘mughiniani’: libri introvabili, leccornie per bibliofolli, la Vucciria delle mirabilie bibliche. Le gambe di Saint Germain di Osvaldo Patani “con 11 acquaforti di Dino Buzzati”, Carezze, il “poemetto erotico” di Alberto Martini, i Di/versi di Gandalf il Viola, il “foglio volante” Rivolta Femminile, la “Rivista di estetica e tecnica grafica” Campo Grafico. Parrebbero stelle filanti gettate contro i carri armati, quando le Termopili sono l’avamposto di un sogno svanito e di Occidente non resta che l’eco, rimbambito dalle cavallette. Non ne sarei così sicuro. Non è detta l’ultima. Mughini è ancora lì, sui botri del nulla, come un impeccabile Leonida.
Un libro per difendere il libro dall’“armata digitale”: sei più un Chadzi Murat, l’eroe di un tempo perduto, fuori tempo, o un profeta di presunte apocalissi?
Se c’è una battaglia perduta in partenza, è quella del libro di carta contro “l’armata digitale” e dunque era una battaglia che valeva e vale la pena combattere. Lascio ai babbei del terzo millennio il pronunciare 24 ore al giorno parole di fuoco contro la mafia e a favore dell’onestà, ovvietà da far venire il sonno. Non è che c’è una “presunta apocalisse” all’orizzonte. L’apocalisse c’è già stata. I ragazzi di vent’anni trascorrono 4-5 ore al giorno chini su un telefonino, e mai una volta ho visto un ragazzo di vent’anni all’edicola cui vado al mattino a comprarvi i 5 quotidiani che leggo. I libri ci sono e ci saranno sempre. Purtroppo non sono più al centro della nostra vita e delle nostre usanze quotidiane e meno che mai al vertice della comunicazione diffusa. Se durante una trasmissione televisiva, pronuncio il titolo di un libro vedo il volto del conduttore impallidire per il timore che una fetta del pubblico smanetti all’istante in direzione di un altro canale.