C’è una paura sempre molto radicata, nella politica italiana. Ed è quella di richiamare gli elettori al voto, quando c’è una crisi di governo che non trova soluzione. E’ vero, le regole sono chiare, devono anzi essere ferree in una democrazia rappresentativa che intenda preservarsi da derive plebiscitarie. Si vota ogni cinque anni. E il cuore delle istituzioni è il Parlamento, dove qualsiasi maggioranza è legittima per definizione. Eppure, dal punto di vista politico più che della forma, qualcosa dovrebbe aver insegnato quanto accaduto dal 2011 in avanti. L’accanimento nel voler cercare a ogni costo un’alchimia per far nascere un governo purchessia ha accelerato l’allontanamento degli elettori dai partiti tradizionali, e ha indebolito la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Perché non viviamo in un’epoca ordinaria, ma di straordinaria trasformazione a più livelli. Politica, sociale, tecnologica.
L’opinione prevalente è sempre stata una: ricorrere alle elezioni troppo di frequente comporta la tentazione di un voto emotivo, poco ragionato, destabilizzante. Specie in una democrazia, come quella italiana, considerata ancora giovane e non abbastanza matura. Il 4 marzo 2018 ha tuttavia confermato che fra gli elettori questi calcoli non contano più, sentirsi condotti per mano come scolaretti provoca solo una sensazione: quella di dispetto. Ecco allora il 2011. Sembra un cliché, ma i cliché nascondono anche una parte di realtà: l’operazione con cui allora fu fatto nascere il governo tecnico di Mario Monti, sostenuto da Pdl e Pd, si è rivelato come il momento fondativo di un nuovo modo di fare politica. Anzi, di fare opposizione. Radicale nel messaggio, veloce nel posizionamento mediatico, spregiudicato nella trattativa politica. Sei anni e mezzo dopo, ne hanno fatto tesoro (elettorale) Movimento 5 Stelle e Lega.
Ci sono tanti elementi che dovrebbero suggerire di non escludere a priori il ritorno alle urne se non ci sarà una maggioranza chiara in Parlamento, che sia M5S-Lega o M5S-Pd, previa una modifica chiarificatrice della legge elettorale. Gli elettori hanno il diritto-dovere di premiare o punire chi possa aver soddisfatto o tradito la propria fiducia
Con la crisi dell’ultimo governo Berlusconi, non si andò a votare perché l’Italia era nel mezzo di una tempesta finanziaria. Ciò permise probabilmente di rimettere in sesto i conti pubblici, anche a costo di enormi sacrifici sociali. Ma dal punto di vista politico tolse ai cittadini la possibilità di giudicare con un voto chi aveva gestito la prima fase della grande crisi economica. Prima conseguenza: le elezioni del 2013, esattamente come oggi, non hanno prodotto una maggioranza stabile in Parlamento. Nasceva in quel contesto il governo di Enrico Letta, con Pd e Pdl ancora in maggioranza assieme, e la sorpresa 5 Stelle all’opposizione. Era una legislatura che avrebbe potuto morire da un momento all’altro, tanto fragili apparivano le sue gambe. Ma in almeno due occasioni, le elezioni anticipate sono state scongiurate. Quando Renzi ormai a Palazzo Chigi aveva vinto le Europee del 2014 con il 40% e poteva chiedere agli elettori un mandato esplicito per governare. E quando, infine, lo stesso Renzi è stato sconfitto al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016.
Tutti i protagonisti di questa stagione – governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni – sono stati puniti dall’elettorato nel 2018. E’ un caso? Di certo tutte le alchimie di Palazzo che hanno prodotto gli ultimi Esecutivi (tutti legittimi, beninteso, in una democrazia parlamentare) non sono state comprese dagli elettori, che le hanno spesso considerate lontane ed estranee. Di più: il continuo cambio di leggi elettorali per aiutare o penalizzare il favorito di turno ha contribuito a gonfiare i sospetti verso la politica. Tutti elementi che dovrebbero suggerire di non escludere a priori il ritorno alle urne se non ci sarà una maggioranza chiara in Parlamento, che sia M5S-Lega o M5S-Pd, previa una modifica chiarificatrice della legge elettorale. Gli elettori hanno il diritto-dovere di premiare o punire chi possa aver soddisfatto o tradito la propria fiducia. E hanno bisogno anche di essere responsabilizzati, probabilmente.
Un governo che escluda chi ha preso più voti o che chiami in servizio personalità esterne ai partiti o che proponga formule dilatorie in attesa di tempi migliori potrebbe avere un unico effetto. Far capire agli elettori che non contano nulla. E che quindi, alla fine, è sempre meglio buttarla in rissa. Almeno così qualcuno si accorgerà di loro.
Twitter: @ilbrontolo