Mon frère, Pennac racconta il fratello Bernard. E scrive il suo miglior libro

«Carrierismo, mondanità, ambizione… niente di tutto questo lo interessava. È la persona che ho più amato nella mia vita». A vent'anni dalla morte lo scrittore francese celebra il fratello

JOEL SAGET / AFP

Non sono un fan. Anzi. Daniel Pennac – che di cognome farebbe ‘Pennacchioni’ – è tra gli scrittori francesi più riconosciuti al mondo. Ma a me i riconoscimenti fanno l’effetto di un frigorifero sulla cima del K2. Ignifugo all’ironia, ho sempre pensato a Pennac come a qualcosa tra Gianni Rodari e il primo Calvino: del cosiddetto ‘Ciclo di Malussène’ m’importa nulla, e il suo saggio – armato di fama – Come un romanzo m’è parso di fragrante banalità. Però. I francesi quando ricordano d’essere degni nipoti di Pascal e di Rousseau e di Montaigne e di De Sade – cioè: letteratura psicolatrica, che entra negli anfratti del quotidiano facendo esplodere pirotecniche ambiguità – stupiscono. Di Pennac, ad esempio, mi stupì Storia di un corpo (2012), specie di diario di carnale stupefazione. Ora Gallimard manda in libreria l’ultimo libro di Pennac. E a me pare, superficialmente, un buon libro. Forse è il miglior libro di Pennac. Il libro s’intitola Mon frère, ha l’ampiezza di un pamphlet (144 pagine, 15 euro, per chi sa leggere in francese) e racconta, vent’anni dopo la morte, il fratello di Daniel, Bernard. Pennac ha parlato con discreta costanza del fratello come di “una presenza angelica”. In una intervista su Le Monde, l’anno scorso, ad esempio: “Aveva cinque anni più di me. Abbiamo vissuto nella stessa stanza fino a quando ho avuto 11 anni. Bernard era il grado zero del possesso. Insieme, eravamo soli, in due, una solitudine blindata, una città silenziosa, una profonda amicizia… poco prima della sua morte ci siamo resi conto che non abbiamo mai litigato. In più di 60 anni, non abbiamo mai litigato una volta!”. Di simili cucchiai di mieli può importarci poco. L’esito estetico però è interessante.

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