Sfuggente? Certo. Misantropo? Forse. Cialtrone nel suo genio? Probabilmente. Tenero? Perfino, sì. Sulla biografia il giudizio è aperto, ma intanto qui abbiamo l’elemento chiave, quello meno determinabile concettualmente, ma anche meno equivocabile di tutti, grazie alla santa riproducibilità tecnica che a volte salva l’aura dell’opera d’arte. Abbiamo il suono di Arturo Benedetti Michelangeli. È un suono che si riconosce subito. Capita a pochi di diventare icone sonore: è capitato a Hendrix, a Pablo Casals, a Paco de Lucia, a Miles Davis.
Per decenni la critica ha insistito sull’ascolto “strutturale”, quindi architettonico, spazializzato della musica, ritenendo che l’aspetto materico fosse troppo cangiante e poco afferrabile. Ontoteologia sonora. In ABM invece c’è la struttura, il controllo sul tempo del metronomo, l’attenzione alla armonia delle parti, certo; ma c’è, immediatamente, il suono. Basta ascoltare le sue interpretazioni del compositore più radicale del Romanticismo: Fryderyk Chopin, e paragonarle con quelle di altri mostri sacri (e profani) del pianoforte. Alla prima nota Michelangeli arriva, anche a un orecchio inesperto. Anche con mezzi d’ascolto abietti come l’altoparlante del cellulare. Lo Chopin di Michelangeli arriva, come il Debussy di Michelangeli, come il Ravel di Michelangeli.
Uno dei brani più amati nelle esecuzioni chopiniane è la la Sonata n. 2 op. 35 in si bemolle minore, molto famosa per via del terzo movimento che -romanticismo per romanticismo- è una marcia funebre. Fu suonata al funerale del fragile genio polacco, che si era autorappresentato la propria fine, è stata arrangiata per orchestra in mille modi, è o è stata il cavallo di battaglia dei più grandi pianisti del mondo. Da Horowitz, a Pollini, a Rubinstein.
Ecco tutta la Sonata nell’interpretazione di Michelangeli. La marcia funebre parte da 15, 25. A 24, 45 comincia il movimento successivo, il “presto”. Una parte “impossibile” . Con le due mani sincronizzate su passaggi velocissimi. Rubinstein l’ha definita “un vento che soffia fra le tombe”. Michelangeli la esegue in modo ritmicamente, e dinamicamente, imprendibile.
La cosa singolare è che un altro mostro (sacro o profano) del pianoforte come Vladimir Horowitz proprio in quel punto non sembra avere la consistenza di Michelangeli. Si sente qualche irregolarità ritmica, l’impressione è che tutto sia un po’, con tutto il rispetto per un esecutore grandioso, leggermente fuori controllo (da 20, 11).
Ci sono poi casi di composizioni che erano pressoché dimenticate al momento in cui Michelangeli ha deciso di riesegurle. L’esempio più famoso è il concerto n 4 di Rachmaninov. Del compositore (e pianista virtuso) russo si eseguivano molto il secondo e il terzo concerto. Fino a quando ABM decise di reinterpretare il quarto, tra il malcontento generale, al festival di musica contemporanea a Venezia. L’incisione è del ’57. E’ oggi considerata un capolavoro incontestabile.
E poi, per moltissimi, Benedetti Michelangeli è quello di Ravel e Debussy. Anzi È Ravel e Debussy. Il controllo del suono di ABM, e la sua capacità di tirare fuori dal pianoforte un numero imprecisabile di nuances sonore, del resto, era perfettamente compatibile con la poetica dell’Impressionismo. Congenialità. Riguardo ai Preludes di Debussy, Cord Garben -che è stato produttore di ABM per la Deutsches Grammophon, ha raccontato nel dettaglio l’uso dell’”arpa eolica” in registrazione, vale a dire un secondo pianoforte, con le corde non stoppate, le cui corde vibravano per simpatia, creando il tipico alone sonoro. Qui bisogna aggiungere che le esecuzioni di Arturo Benedetti Michelangeli non cadevano nella suggestione timbrica pura. Ecco uno dei classici di Ravel che Michelangeli ha sempre suonato, e sempre amato. Con robustissime dosi di scala esatonale.
Per quanto riguarda Ravel, invece, emerge addirittura il lato blues. Ravel scrisse il Concerto in Sol tra il 29 ed il 31, dopo il viaggio negli Usa che gli fece approfondire il jazz in piena era dixieland. Nel primo movimento si può sentire Michelangeli lavorare su scale blues -terza minore e terza maggiore diabolicamente assieme- su giri armonici ragtime, e si può notarne l’attenzione al testo. Michelangeli anche qui, nella felicità espressiva, è rigoroso, e non abusa dei suoi incredibili trilli.
La rassegna di highligts di Benedetti Michelangeli potrebbe continuare se non si decidesse di chiuderla con l’archetipo della musica tonale/occidentale. Bach. Qui c’è la Chaconne. Una sintesi della storia della musica (la Ciaccona è una danza di probabile origine iberica) e un orientamento per la musica a venire. Uno di quegli snodi fondamentali che capitano quando la storia smette il mantello opaco e prende una direzione. La Ciaccona -che poi è il quinto movimento della Partita n. 2 in re minore per violino solo- fu rielaborata per pianoforte da Ferruccio Busoni, il geniale sulfureo pianista, revisore, trascrittore, italo/tedesco.
La versione di Bach/Busoni di Michelangeli fu ascoltata da Giovanni Testori, che ne scrisse su Il Corriere della Sera il 3 febbraio 1979. “Il modo in cui la musica di Bach sotto o dentro le mani di Michelangeli, nell’unico, inscindibile impasto che si crea tra le sue mani e i tasti del pianoforte, andava depositandosi nello spazio era appunto un cerchio di perfezione. Non la perfezione di ciò che è obbedienza tecnica e meccanica, ma di ciò che è ripercorrimento e reinvenzione dell’impronta suprema e del supremo disegno fattisi musica, suono: quell’impronta che, appunto, genera perché il generato ritorni dentro il proprio grembo”. Perché alla fine ogni musica torna lì, all’origine. Appunto al “grembo del suono”.
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Benedetti Michelangeli, il div(in)o giullare del pianoforte
Benedetti Michelangeli, se sei un genio tutti ti odieranno (e avranno ragione)