I fumatori in Italia sono 11,7 milioni. E nonostante le innumerevoli campagne contro le sigarette, i moniti dell’Oms e gli scaffali delle librerie pieni di manuali, i numeri non calano. Gli italiani che riescono a smettere, dopo esser passati per un centro antifumo, sono solo 7mila l’anno, pari allo 0,06 per cento. E le morti si aggirano ancora intorno alle 80mila ogni anno. «È necessario cambiare approccio», dice Fabio Beatrice, direttore del Centro Antifumo dell’Ospedale San Giovanni Bosco di Torino e fautore della “spinta gentile” per smettere di fumare. «Significa non mettersi in una posizione giudicante di chi è caduto nel tranello del fumo», spiega, «ma in una posizione più umile di ascolto, di comprensione delle esigenze personali».
Nella Giornata mondiale contro il fumo, Beatrice presenta all’Istituto superiore di sanità il suo nuovo libro, Senti chi fuma (Guerini e Associati), scritto la giornalista Johann Rossi Mason: una raccolta di storie di persone che fumano o che fumavano, che hanno amato e odiato le sigarette.
Professore, cos’è la “spinta gentile” per smettere di fumare?
È un modo diverso di proporsi al fumatore. Invece di dire “Io sono l’esperto e ti insegno”, io che sono l’esperto e ho le conoscenze, mi pongo in una posizione umile e ti ascolto. Cerco di capire i problemi che hai, quali sono le tue difficoltà, perché fumi. E nell’ambito di una politica di ascolto, tendo a introdurre concetti che spingono il paziente a una maggiore attenzione per la sua salute, ma in maniera “gentile”. Non è un “top down” coercitivo, ma un suggerimento.
E se il paziente non smette?
La proposta di cessazione del fumo è sempre quella migliore. Quando però vedi che il paziente non riesce ad andare oltre una certa riduzione del numero di sigarette, se lo abbandoni lui torna ai consumi iniziali. Piuttosto che abbandonarlo, allora conviene proporgli una soluzione alternativa, introducendo una politica di riduzione del rischio, e cercando di orientare il paziente al fumo elettronico. È lo stesso discorso che si applica nel cibo: invece di mangiare una cotoletta alla milanese di mezzo chilo fritta nello strutto, ne mangi una di cento grammi fritta nell’olio d’oliva o un petto di pollo bollito.
Ma quanto una sigaretta elettronica riduce il rischio di morte?
Facendo una media di prodotti in commercio, il ministero della Salute della Gran Bretagna stima che la riduzione del rischio sia del 95%, ma ci sono prodotti che sono in grado di dare una detossificazione del 96-97%. In medicina risolvere un problema al 95-96% è un successo enorme. Pensiamo che quando parliamo di influenza si dice che si guarisce nel 91% dei casi, che vuol dire tutti.
Eppure molti medici hanno preso le distanze dal fumo elettronico.
Partiamo dal presupposto che il fumo zero non esiste: non bisogna chiedere al mondo della riduzione del danno quello che non è. Spostare un fumatore normale a uno switch completo di fumo elettronico, intanto significa introdurre un cambiamento e poi su questo cambiamento si può lavorare. Intanto ti levi immediatamente il monossido di carbonio e i prodotti della combustione delle sigarette, che sono quelli che causano le morti. È un discorso pragmatico. Il primo che aveva compreso questa cosa è stato proprio Umberto Veronesi. Oggi diverse associazioni mediche americane hanno aperto a questa possibilità, che è un cambiamento epocale.
Il ministero della Salute della Gran Bretagna stima che la riduzione del rischio con le sigarette elettroniche sia del 95%. Intanto ti levi immediatamente il monossido di carbonio e i prodotti della combustione delle sigarette, che sono quelli che causano le morti. Il primo a comprendere questa cosa è stato Umberto Veronesi
Dopo l’elettronica che succede?
Da uno studio condotto nel 2015 con l’Istituto superiore di sanità, si è visto che il fumo elettronico è uno strumento utile per la cessazione. Il 53% dei fumatori che non volevano smettere passava in maniera stabile per almeno otto mesi al fumo elettronico. Ma in realtà, molto probabilmente, il vero interesse per il fumo elettronico non è tanto per la cessazione.E le integrazioni farmacologiche?
Nei centri antifumo, insieme all’approccio psicologico si fa anche anche uso di queste integrazioni. Però la nicotina farmacologica non ha la duttilità della nicotina presa dal fumo o dallo svapo: la modalità di somministrazione nel sangue non segue la logica del fumatore. Il fumatore è uno che si prende la nicotina come automedicazione: decide lui quando ne ha bisogno e in che situazione. Il farmaco non riesce a simulare una situazione di vita reale.Ci sono anche diversi metodi alternativi per smettere.
L’agopuntura, l’ipnosi o l’orecchino funzionano solo come effetto placebo, con un’efficacia al di sotto del 10%. Sono soluzioni che vanno guardate come folclore, non come soluzioni mediche. Si sa che non servono, come le centinaia di app in circolazione per smettere di fumare.Quanto funzionano invece oggi i centri antifumo italiani?
Ogni anno arrivano nei centri antifumo 16mila persone, di questi smette il 50%. Ma i morti restano sempre circa 80mila l’anno. È evidente che l’offerta che noi proponiamo non funziona. Cerchiamo quindi di capire come aiutare i fumatori: rimanere così fermi , continuare a dire che il fumo è una dipendenza e che non si deve fumare e basta non sposta i dati delle morti.