C’è stato un momento. Quel momento fu un apice. E fu rapace. Siamo nell’Ottocento, e non conta la scansione prometeica della cronologia e neppure la trincea ‘sociologica’. Accade che appaiano degli uomini. A diverse latitudini. Non si conoscono. Questi uomini hanno un linguaggio. E cambiano per sempre il modo di guardare le cose, di nominarle, perfino. Friedrich Hölderlin in Germania, Arthur Rimbaud in Francia, Giacomo Leopardi in Italia, Emily Dickinson negli Stati Uniti d’America. Questi quattro angeli portano lingue diverse ma sono accomunati da un fatto. Vissuti nell’Ottocento, sono i più grandi poeti del Novecento. Di oggi. Di sempre. Voglio dire. La loro poesia nasce già ‘postuma’, è scritta per chi verrà dopo di loro, è un dono ai venienti, ai nascituri, a chi deve ancora nascere. La cosa è straordinaria. Entrambi, sono accomunati da silente sfrenatezza, da una poesia che è oltranza, che oltraggia il lettore comune, che rompe le convenzioni. Sono poeti irrefrenabili, inauditi, di cui non sai darti ragione perché ti si spappola il cervello, come un fiore marcito. Per la storia della poesia, questi poeti inaugurano un nuovo modo di fare poesia – per la storia dell’uomo, impongono nuovi occhi sul mondo. Rinominano le cose, appunto. Sono di una purezza tale da eludere perfino la parola ‘poeta’. Bene. L’occasione per ribadire questa idea, talmente abbagliante da risuonare banale, è un film. A Quiet Passion. Uscito nel 2016, flirtando con un anniversario – i 130 dalla morte – il film racconta la vita di Emily Dickinson. In realtà, c’è poco da raccontare, ma c’è molto da leggere: fare un film su un poeta – a meno che non sia Byron o D’Annunzio – è giocare a rugby su una lastra di vetro sospesa nel vuoto. Mi fido di quanto ha scritto ‘il Mereghetti sul Corriere della Sera: il regista – Terence Davies – è bravo, la protagonista, Cynthia Nixon, “l’Amanda di Sex and the City” (qui trovate un suo bel profilo), è brava pure lei, il film si fa vedere, è piuttosto raffinato. Andatelo a vedere. Meglio un film sulla Dickinson, supereroe della poesia, che l’ennesimo film sul solito supereroe della Marvel, un atto di bullismo bulimico contro i poveri spettatori paganti. Spiando qua e là e leggendo su e giù, però, una cosa mi irrita assai. Il regista, riportano le italiche cronache, ha detto, parlando di Emily, “era divertente, aveva un grande umorismo, e faceva tutte quelle cose che noi esseri umani facciamo”. Di certo, Emily era ironica, fino al cinismo, ovviamente era un essere umano – ma non come noi, forse più di noi, sapeva essere vespa e vispa, albero e nuvola, amante e virile – ma non userei mai l’aggettivo divertente per descriverla.
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