«Il calcio italiano è come un paziente che si trova in uno stato molto molto grave, ma che, nonostante la situazione, continua a voler rifiutare le cure». Non risparmia le parole, Marco Bellinazzo, giornalista del Sole24ore specializzato in economia del calcio, il cui ultimo libro La fine del calcio italiano, è appena stato pubblicato da Feltrinelli. Non le risparmia perché appare abbastanza evidente che il disastro del movimento calcistico italiano, per la prima volta quest’anno nemmeno qualificato ai Mondiali di Russia, vanno ben oltre la dimensione sportiva.
Qual è la malattia che lo sta uccidendo?
L’incapacità di tradurre in investimenti industriali quel primato economico e sportivo che avevano fino alla fine degli anni Novanta. Come spiego nel mio libro, io individuo il 2000 come il millennium bug del calcio italiano, il momento in cui tutto inizia a cambiare, ma in peggio. Perché se pensi che all’inizio degli anni Duemila, Inter e Milan avevano lo stesso fatturato di Real e Barcellona e oggi sono un terzo, direi che l’entità del problema è di quelli grossi.
Cosa è successo?
È successo che l’illusione di poter continuare a far crescere i diritti tv, ma soprattutto tutta una serie di miopie, lotte fratricide e intrecci di interessi, molto più che conflitti di interessi visto che ci siamo trovati di fronte a determinate persone che hanno fatto bellamente i propri interessi, hanno determinato la spoliazione delle risorse. È per questo che scrivo che più che un suicidio, siamo di fronte a un vero e proprio omicidio. L’Italia dai mondiali del 90 fino ad oggi avrebbe potuto godere di successi industriali, ancor più che sportivi, ma tutte quelle occasioni sono state perse per dinamiche industriali che si sono riversate sul calcio.
Per esempio?
Be’, al di là della questione degli stadi di Italia ’90, che ormai è quasi banale raccontare, a un certo punto, nel 2000, noi ci siamo trovati nella situazione di essere tra i primi a poter creare una sinergia positiva tra l’industria delle telecomunicazioni e il calcio, incrementando per esempio la diffusione della banda larga nel paese, cosa che in Inghilterra e Germania British Telecom e Deutche Telekom hanno fatto dieci anni dopo.
In che modo?
Investendo sui diritti del calcio, quindi incrementando gli abbonamenti sui diritti del calcio, e con quel cashflow fare investimenti sulla banda larga, perché la fruibilità delle partite ha chiaramente bisogno di reti di trasmissione importanti e all’avanguardia. In Italia invece, la Telecom di Tronchetti Provera era alleata con Stream e stavano per investire sui diritti del calcio, poi però a un certo punto evidentemente per salvaguradare altri che investivano in quel settore, quel mondo — che significa anche La7 — hanno deciso di investire sulle televisioni in chiaro, comprando le tv di Cecchi Gori e facendo esaurire quello slancio. Sempre restando nell’ambito dei diritti tv, a un certo punto in Italia arriva una pay tv internazione che va sul digitale terrestre che si chiama Dahlia, ma che dopo appena due anni soccombe.
Come mai?
L’idea di Dahlia era creare un canale di calcio di provincia, aveva le squadre di serie B e le squadre minori. Nel contratto di assegnazione di questi diritti c’era la possibilità, direi molto strana, per Mediaset Premium di prendersi le due squadre con più bacino di utenza della serie B, un diritto che Mediaset esercitò a due mesi dall’avvio del campionato mettendo Dahlia in grandissima difficoltà.
Dietro Dahlia chi c’era?
C’erano vari azionisti, ma in particolare la famiglia Wallenberg, una famiglia svedese che, per capirci, era la proprietaria di Electrolux e Ericsonn, praticamente un terzo del PIL della Svezia, che avrebbero potuto tranquillamente investire. Però, quando ci fu questa possibilità, i Wallenberg vennero in Italia per capire se ci fossero delle garanzie su questo investimento. Lo chiesero a coloro che in quel momento governavano sia il calcio che il paese, ovvero al governo Berlusconi, in particolare al ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani, e alla Lega Calcio e all’advisor Infront, che però nel frattempo valutava l’opportunità di rilevare la piattaforma per lanciare un suo canale specifico per la Serie A. A quel punto gli svedesi presero la decisione di tirarsi indietro.
Che cosa ha causato?
Ha bloccato lo sviluppo del sistema radiotelevisivo intorno ai diritti tv, ha tolto risorse al calcio, perché poi i competitor, almeno sulla carta, sono diventati due. La dinamica della crescita dei diritti tv in Italia da quel momento è andata a rilento. Sono cresciuti pochissimo, mentre altrove aumentavano del 50 per cento ad ogni rinnovo triennale. Oggi paghiamo gli effetti di quelle dinamiche con il sostanziale monopolio di Sky.
È un problema che ha afflitto solo i vertici del calcio o ha riguardato tutto il movimento?
No, per niente. Perché i diritti tv, attraverso il sistema della mutualità, va a tutta la catena. E impoverendo tutta la catena noi ci ritroviamo oggi con una Lega Pro in cui sono stati 80 punti di penalizzazione, squadre sospese, squadre in servizio provvisorio, altre in mano ad organizzazioni criminali, come il Foggia, per esempio, che è stata la prima sqiadra di calcio ad essere commissariata per inflitrazioni. O ancora, squadre che hanno passato più tempo in tribunale come il Frosinone o il Bari. Insomma, il sistema calcistico non ha più retto a causa di questa privazione di risorse.
A chi sono andate queste risorse?
Le risorse sono arrivate abbondantemente nel calcio italiano a partire dalla metà degli anni Novanta, più o meno in contemporanea con il lancio della Premier League. Ma mentre in Inghilterra con quei soldi ci hanno pagato, oltre che ai giocatori e ai procuratori, anche lo sviluppo delle infrastrutture e sulla internazionalizzazione dei brand.
Cosa significa “internazionalizzazione dei brand”?
Ora è una formula che sentiamo spesso, ma è una formula vuota, perché se non aggredisci i mercati commerciali con sinergie tra squadre, con uffici aperti in giro per il mondo, con strategie mirate ai diritti internazionali e all’organizzazione di tourné puntuali in certi paesi, questa formula diventa uno slogan e non vale più niente. E infatti guarda quanti sponsor internazionali abbiamo in Italia: pochissimi, a parte Emirates o Qatar Airways, ma lì ci sono stati problemi politici che hanno forzato la situazione.
Che effetti ha avuto sull’economia del calcio italiano?
Di fatto ha depresso sia i ricavi da stadi si quelli commerciali. Pensa solo che il sistema calcio italiano, in media, ogni anno tra tutte le squadre può contare su circa 250 milioni di euro complessivi, mentre squadre come Barcellona, Real, Arsenal, Man City, incassano dagli 80 ai 90 milioni per singola squadra.
E la questione stadi?
Negli ultimi 15 anni in Europa sono stati costruiti o ristrutturati 137 stadi, per un investimento totale di 15 miliardi di euro, in particolare tra Polonia, Turchia e Germania. In Italia sono stati inaugurati nel frattempo 3 stadi, per 200 milioni di investimenti.
Sono intelligenti gli altri e scemi noi o c’è qualcosa sotto?
No, più semplicemente noi in Italia abbiamo una classe dirigente calcistico che è lo specchio di quella del paese e quindi c’è stata una miopia, una incapacità totale di guardare in un ottica comune. La Premier, che nel frattempo è diventata una potenza da 5-6 miliardi di fatturato annuale, ci è riuscita perché ha saputo adottare criteri di ripartizione delle risorse molto americani.
Come funziona?
I diritti tv, da cui incassano quasi 3 miliardi e mezzo, vengono divisi di fatto quasi al 70 per cento in parti uguali tra tutte le squadre. In Italia, invece, per vari motivi, anche attraverso tutti gli scandali che si sono ripetuti, questa visione di insieme non si è mai realizzata e si sono sempre tutelati interessi particolari. Forse è banale ricordare che siamo il paese dei campanili e dei comuni, però è così, la storia è questa: regole strutturate per far funzionare la Lega come un condominio, in cui ogni squadra ha il 5 per cento e può bloccare qualsiasi decisione e questo ha sempre bloccato qualsiasi tentativo di cambiamento, impedendoci di aggredire i mercati esteri e costruire un’industria calcistica moderna.
In questo contesto che mi stai raccontando, come valuti lo scandalo di Calciopoli?
Sicuramente è andato a scoprire dei bubboni, ma il problema è che è nato all’interno di una guerra dinastica della famiglia Agnelli, che porta ad estromettere una parte a vantaggio dell’altra. Ma ci sono anche altre storie interessanti, per esempio, nel libro racconto una storia molto bella sui vivai, una norma bluff.
Cosa è successo?
Sempre alla fine degli anni Novanta, quando vengono trasformati i club in società per azioni per permettere, giustamente, alle società di fare utili, in quella riforma si prevedeva anche una norma che imponeva di investire il 10 per cento degli utili nelle giovanili, nei vivai. L’unico problema è che quella norma non nacque per motivi sportivi, ma per motivi economici e più propriamente fiscali, di due gruppi, la Ifil, ora Exor, e Fininvest, che avevano l’esigenza di far trasformare i club in Spa per poter inserire le squadre nel consolidato e quindi abbattere l’imponibile. Giraudo e Galliani, che erano i rispettivi A.d. chiesero consiglio a Carraro e lui li indirizzò verso chi, nel governo, aveva la delega allo sport, ovvero Walter Veltroni. Quindi la norma venne fatta dalla sinistra per sostenere i vivai alla fine si ridusse a una norma bluff non per aumentare gli utili, ma per scaricare le perdite. E di fatto da quel momento la Serie A è diventato il campionato che investe di meno, in percentuale, sui vivai. Bastava prevedere una percentuale anche molto più bassa, ma non sugli utili, sul fatturato.
Alla luce di questo sistema che stai descrivendo, come dobbiamo valutare il fatto che negli ultimi anni squadre italiane come la Roma, l’Inter ma soprattutto la Juventus, che sono arrivate ai vertici del calcio europeo?
Prima di tutto l’Inter ha vinto nel 2010, ormai 8 anni fa, ma soprattutto ha vinto grazie a degli investimenti di Moratti talmente grossi che lo hanno costretto a vendere la squadra. Ma in ogni caso la verità è che in Italia, tutte le squadre che hanno cercato di vincere o sono fallite o sono arrivate sull’orlo del fallimento, pensa anche alla Roma, alla Lazio, al Milan.
E la Juventus?
La Juve ha una storia diversa perché ha una società diversa. E comunque è passata attraverso Calciopoli. In ogni caso, nell’assetto delle società italiane di oggi direi che soltanto tre di loro si stanno trasformando in quelle che chiamo SEC, ovvero Sport Entertainement Company, e sono la Juve, che è davanti a tutti, che ha cinquecento dipendenti e che ha fatto negli anni una serie di operazioni commerciali fondamentali per accrescere la propria situazione.
E le altre due?
Le altre due sono proprio l’Inter e la Roma. L’Inter grazie a Suning e la Roma, dopo anni difficili, grazie alla proprietà americana, che ora sembra aver trovato la quadra, non investendo alla cieca, ma organizzandosi come una azienda. Non a caso la Roma è arrivata ad avere 300 dipendenti. Sono le uniche che vanno in quella direzione. Le altre hanno un modello che io definisco patriarcale, che fa seguito al modello mecenatistico antiquato che ha governato il calcio italiano negli ultimi decenni, portando il sistema calcio ad essere sempre in perdita di almeno 100 o 200 milioni di euro all’anno.
Quanto può durare questa situazione?
È evidente che senza le opportune riforme e un cambio effettivo di passo, questa è una situazione che ci porterà ad essere la Serie C di Europa. Considera per esempio la questione dei diritti televisivi, che sta cambiando molto velocemente. La Ligue 1 francese ha appena venduto i diritti fino al 2024 sulla base di un canale tematico che dovranno fare, Mediapro.
Quindi ci ha superato anche la Ligue 1?
Sì, e noi rischieremo di essere la periferia e di venire tagliati fuori da tutte le novità che stanno emergendo e in questo campo. Pensa all’ingresso di un gigante con Amazon, che dopo aver investito nei diritti di NFL, tennis e altro, ha appena comprato un piccolo pacchetto — 20 partite a stagione — della Premier Ligue. Ed è solo il banco di prova per un modello di business adeguato e da questo sistema noi per ora siamo fuori, e rischiamo di restarci visto la condizione del campionato italiano.
Cosa ci dobbiamo aspettare per il prossimo futuro?
Mercoledì c’è l’assegnazione dei diritti per il triennio ’18-’21, per la prima volta siamo arrivati a farlo a due mesi dall’inizio della stagione, senza che fosse stato risolto alcunché e mettendo in difficoltà molti club che su quei diritti potevano costruire crediti per il calciomercato e adempiere alle scadenze di fine stagione. Tra l’altro lo si sta facendo tutto di corsa, cambiando il modello di vendita, da quello a piattaforma a quello a prodotto, con il problema che ora a pagare saranno i tifosi e gli spettatori, visto che si rischia di tornare ai tempi di Tele+ e Stream e serviranno due abbonamenti per seguire tutte le partite della propria squadra.
Quali saranno le conseguenze se non si trova l’accordo?
Io credo che l’accordo sarà trovato. Il problema è capire quanti soldi verranno messi sul tavolo, perché nella migliore delle ipotesi rischiamo di stare allo stesso livello degli ultimi tre anni, circa 1,3 miliardi, mentre tutte le altre leghe viaggiano con incrementi a doppia cifra. Rischiamo di rimanere nel medioevo del calcio, restando esclusi dallo sviluppo dell’industria del calcio moderna, legato al business e all’entertainement, un’industria che a livello europeo sta esplodendo, è passato da 11 a 20 miliardi di fatturato e l’Italia ha avuto incrementi da PIL, ovvero dello zero virgola.
Quanto ci costa non giocare questi mondiali?
Ricadute molto molto importanti su tutta l’economia nazionale: dal punto di vista pubblicitario, ma anche da quello dei consumi, visto che i mondiali erano sempre stati un’occasione formidabile di marketing. C’è da dire che molti guardano solo a questa esclusione, ma dimentichiamo che negli ultimi due siamo usciti prima degli ottavi, e contro potenze calcistiche del calibro di Slovacchia, Nuova Zelanda e Costarica, con tutto il rispetto ovviamente. I danni di immagine al movimento sono enormi e le ricadute economiche anche nel mondo del calcio sono gigantesche, anche soltanto per le sponsorizzazioni della nazionale per i prossimi 4 anni. Difficile quantificare il danno complessivo, ma soltanto dal punto di vista dei premi, che quest’anno sono oltremodo ricchi con 400 milioni in tutto, perdiamo 20-30 milioni di premio minimo, più i danni futuri, diciamo che potremmo arrivare a 50 milioni, ma tutto quello che è indotto è praticamente incalcolabili, tutte le statistiche però ci dicono che per moltissimi settori, primi tra tutti i media, i periodi dei mondiali sono sempre stati dei volani.
Per chiudere con una visione positiva, cosa possiamo fare per invertire la debacle?
Il titolo del mio libro è molto forte, ma non voleva essere un epitaffio. E infatti ci ho messo un sottotitolo che desse speranza. Io ritengo che ci sia un grandissimo talento calcistico nel nostro paese — la nazionale under 17 è ai vertici europei — ma che rischia di essere sprecato se non viene governato e tutelato da un sistema che funziona. Credo che per invertire la rotta potremmo prendere ispirazione da altre nazioni che hanno attraversato crisi simili, l’Inghilterra per esempio, che per far fronte ai tanti insuccessi e alla sempre più forte presenza di stranieri, per esempio, ha creato un centro unico per tutte le nazionali, dall’under 12 in su, costruendo addirittura un campo che riproduce il taglio dell’erba di Wembley. L’hanno fatto da 4 anni e stanno vincendo quasi tutte le competizioni europee. Lo stesso lo ha fatto la Germania quando è stata in difficoltà ed è stata eliminata dai mondiali: hanno fatto delle rivoluzioni. In Italia se ne parla ogni volta e non si fa praticamente nulla.
Nemmeno dopo il commissariamento della federazione?
Ci hanno provato, con l’introduzione delle squadre B, togliendo il 2 per cento di voto agli arbitri, portando il calcio femminile, quanto meno dei vertici, sotto l’egida della FIGC. Ma sono misure spot, servono a poco, l’unico risultato che hanno avuto è stato quello di ricompattare le componenti che fino a due mesi prima avevano litigato senza riuscire nemmeno ad eleggere un presidente — ovvero dilettanti, lega pro, calciatori e allenatori — attorno a un nome, che è quello di Gianluigi Abete che, al di là di quel si può pensare di lui, è stato il presidente della Federazione dal 2007 al 2014, ovvero quando abbiamo vissuto le eliminazioni in Sud Africa e Brasile. Insomma, non è un grande segnale di rinnovamento. I nomi e le visioni sono importanti e in questo momento mancano sia gli uni che le altre.
È pazzesco perché mentre me lo racconti mi sembra che questo sfacelo sia più o meno lo stesso che affligge l’Italia ad altri livelli, come quello politico…
Lo è, credo che il calcio non sia soltanto lo specchio del paese, ma che sia figlio diretto delle politiche di governance di questo paese, in tutti i settori.