Sia chiaro. Non rinnego nulla. Mi piace l’acqua calda nella doccia, è meglio che per la carne mi rivolga al macellaio e per la verdura al fruttivendolo – non so uccidere una bestia e non so coltivare l’orto – evviva il dentifricio e lo shampoo. Nonostante alla luce elettrica preferisca il frinire delle candele, riconosco che l’elettricità ha dei vantaggi formidabili: mi piace la birra ghiacciata, non so accendere il fuoco senza dar fuoco a tutto il resto, uso il computer a mo’ di eremo. Per cui – sia chiaro – evviva la civiltà. Però.
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Da anni coltivo l’idea di una collana editoriale che s’intitoli ‘Le regole della felicità’. Sembra un paradosso – e lo è. Si è ‘felici’, dice il tonto, se si può fare ciò che si vuole. In realtà, chi vive in questa realtà sa che, di solito, si è felici facendo quello che vogliono altri. Le ‘regole’ sono quei testi, in ogni tradizione – buddhista, taoista, cristiana, cattolica, ortodossa, ‘pagana’ – che disciplinano il corpo perché divenga una freccia puntata verso il dio, che raffinano la mente per poter accogliere il dio. Alle regole occorre obbedire – per aderire alla felicità più grande bisogna obliare la felicità terrena, misera, minima.
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Ovvio, non sono nato ieri. Se mi applico così tanto con ‘le regole’ significa che sono incapace a seguirle; se mi piace leggere i mistici e i santi, uomini d’azione e dunque di contemplazione, vuol dire che sono incapace a mollare tutto, fare lo scalpo al mondo, e percorrere i deserti. Solo i perversi, i malati, gli infedeli, i lussuriosi maneggiano i libri, mannaggia. Però.
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