Parlarne anche male, purché se ne parli. La strategia comunicativa di Matteo Salvini è quella che finora è emersa con la maggiore pervasività, nel primo scorcio di governo Lega-M5S. Un’overdose di parole, immagini ed esibizione corporale, accumulata quotidianamente fra le aule istituzionali e le piazze, che ogni mezzo di informazione è sempre pronto a captare e rilanciare in diretta, ormai senza mediazioni. Di come il leader della Lega sia riuscito a occupare ogni spazio mediatico in meno di due settimane, si è già scritto moltissimo. Ma osservare il suo meccanismo comunicativo resta utile, per prendere le misure di un dibattito politico che si annuncia lungo. E che spesso rischia di sfuggire di mano, a chi lo anima e a chi lo racconta. Il modello di Salvini è lo stesso della sua campagna elettorale: è Donald Trump.
Del presidente Usa, il leader della Lega (ex Nord) ha copiato lo stile nell’organizzazione dei comizi e nella composizione del materiale propagandistico. A partire dai cartelli blu che hanno sdoganato il motto Salvini premier, per finire con lo slogan Prima gli italiani. Ma questo accade dall’autunno del 2016. Come Trump, da vicepremier e ministro dell’Interno, cioè da uomo di governo, Salvini sembra ora un pugile impegnato a saltellare senza sosta su un ring istituzionale. Ha lo sguardo che va a destra e a sinistra in cerca dell’avversario di turno, per sfidarlo ma senza mai atterrarlo. Il primo colpo è secco, confezionato per dividere le tifoserie fra due prevedibili giudizi: da una parte l’applauso e, dall’altra, la condanna morale. Può succedere con un tweet o in un comizio o nel passaggio di un’intervista televisiva. E così si scatena subito un gran rumore di fondo, che sovrasta tutto quanto sta accadendo intorno.
Il primo colpo è secco, confezionato per dividere le tifoserie fra due prevedibili giudizi: da una parte l’applauso e, dall’altra, la condanna morale. Può succedere con un tweet o in un comizio o nel passaggio di un’intervista televisiva
Quando il Quirinale ha confermato il suo veto alla nomina di Paolo Savona al ministero dell’Economia, per esempio, a Salvini è bastato scrivere una frase secca sulle sue pagine social – “Sono davvero arrabbiato” – per preparare lo scontro con il presidente della Repubblica. Intanto che tutto il mondo ne discuteva, commentava, analizzava, lui continuava però a trattare coi 5 Stelle per fare un governo o per arrivare a elezioni anticipate. Quando, passata la tempesta, si è poi insediato al Viminale con l’intento dichiarato di negoziare nuove regole europee sull’immigrazione, Salvini ha lanciato messaggi di sfida mirati, prima ancora di avviare il lavoro diplomatico. Al governo della Tunisia, uno dei principali interlocutori fra i paesi di partenza dei migranti, ha rivolto l’accusa di “esportare galeotti”. A quello di Malta, piccolo Paese Ue sulla rotta dalla Libia, ha mandato a dire che “non può sempre dire di no” alle richieste di accoglienza. Prevedibili le reazioni: applausi dai sostenitori, rimostranze da parte degli altri. Ed è qui che, come con Trump, scatta il secondo colpo comunicativo.
Salvini ha sempre risposto alle critiche, dicendo di essere stato frainteso o che il suo messaggio era stato ingigantito, che non voleva litigare ma solo provocare una reazione positiva degli interlocutori. “Non vedo l’ora di incontrare le autorità tunisine e maltesi”, ha infatti subito dichiarato di fronte alle proteste dei due governi. Ha usato lo stesso atteggiamento anche nell’ormai nota decisione di vietare l’attracco in Italia alla nave Aquarius, accompagnata da un autoritratto da uomo forte e con l’hashtag #chiudiamoiporti. Quando il governo spagnolo si è detto pronto ad accoglierla, il leader della Lega-vicepremier-ministro dell’Interno ha esultato: “Alzare garbatamente la voce serve, abbiamo aperto un fronte in Europa”. Eccolo il meccanismo comunicativo di Salvini come di Trump: creare il caso, lasciare litigare gli altri e (terzo colpo) intestarsi la soluzione al problema. Qualunque soluzione sia e comunque siano andate le cose.
Il risultato è triplice. Da una parte, si compattano gli elettori attorno all’idea della forza e dell’orgoglio nazionale. Dall’altra, si costringono i mezzi di informazione a rincorrere ogni dichiarazione come fosse quella decisiva. Nel mezzo stanno gli avversari – la sinistra, il vecchio establishment, i partner internazionali, ma anche gli stessi giornalisti – ai quali Salvini lascia poco tempo per reagire, approfondire, contestualizzare. Così la notizia si confonde con la chiacchiera in libertà, la decisione con la provocazione, l’idea con l’azione. E tutto diventa possibile e, alla fine, digeribile, nello scenario italiano come in quello americano. Che Trump per esempio diventi amico di Kim Jong-un o che Salvini trovi il suo principale alleato in Angela Merkel. Perché i due, radicali, arruffapopolo, spregiudicati, sono prima di tutto pragmatici. Quindi, opportunisti: dopo aver alzato il polverone, trattano per ottenere quello che vogliono, approfittando della confusione.
Provocatori e pacificatori, Salvini e Trump promettono entrambi ordine. Ma perché lo si raggiunga occorre che prima ci sia il disordine. Elemento ideale della bolla comunicativa.
Twitter: @ilbrontolo