Silvio Berlsuconi rimette in scena una volta ancora l’orgoglio forzista ma, in questo caso, qualcosa suggerisce di non rubricare il tutto come il colpo di coda d’un mondo in declino. Il Cavaliere ha riunito i suoi parlamentari e ha certamente badato a sfamarne l’ansia della dispersione, lo smarrimento dell’irrilevanza e la tentazione di consegnarsi senza condizioni all’alleato-predatore Matteo Salvini, il nuovo padrone di un centrodestra dato frettolosamente – lui sì – per agonizzante. Berlusconi ha parlato come l’oracolo di una bottega nella quale il fiuto per gli affari, politici quanto economici, non è andato smarrito: “Vi dico subito che, guardando la situazione attuale e quello che sta succedendo, nel giro di alcuni mesi questo governo finirà”. Più che un auspicio interessato, meno di una certezza granitica. L’ex premier pondera il sussulto inatteso provocato dal decreto Dignità, con i 5 Stelle determinati ad andare fino in fondo anche a costo di scontentare – si suppone – tanta parte dell’elettorato naturale leghista. Di qui la scommessa berlusconiana, esibita con la consueta sprezzatura e un tantino di furbizia commerciale: “Io spero ancora che la Lega ci aiuti, anzi rivolgiamo un accorato appello a Salvini per bloccare queste norme, in nome delle aziende, dei produttori, dei lavoratori, degli artigiani, dei commercianti, degli agricoltori, che non hanno davvero bisogno di altre difficoltà da aggiungere alle tante con cui combattono ogni giorno”.
E’ verosimile che Salvini avrà il suo da fare per sedare lo sconcerto crescente d’un mondo imprenditoriale che si sente aggredito dalla svolta paleosindacalista pentastellata. Su questo passaggio traumatico Forza Italia, quel che ne resta e in tempo utile per scongiurare la propria subalternità, sceglie la via dell’opposizione strategica con l’obiettivo di fissare un segnacolo in campo aperto. Intorno a questa bandiera sviluppista e liberale, Berlusconi ritiene che dovrà riaggregarsi quanto prima un polo di centrodestra.
E lui si siede lì, più combattivo che stanco, nell’attesa che a settembre imploda la strana maggioranza dei populisti. Questione di fiuto, dicevo, ma anche mancanza di alternative, in effetti. Insieme con i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, il Cavaliere sta azzardando l’affondo sulla linea di minor resistenza leghista, ben cosciente che non ci sono vie subordinate: se il governo Conte riuscirà a superare il contraccolpo del pacchetto Dignità e poi il tornante dirupato della legge di bilancio, si aprirà una discesa libera senza precedenti il cui traguardo saranno le elezioni europee del 2019. Un punto di non ritorno in cui la calce del potere pentaleghista diventerebbe cemento armato.
In questo senso l’attacco inesausto alla componente grillina – “si sono dimostrati peggiori della politica che dicevano di voler cambiare” – si combina con un richiamo della foresta finalizzato, sì, a smuovere i sondaggi a danno (tutto presunto) dei padani; ma sopra tutto a resituire un carico di senso e di prospettiva alla propria gente. Non è l’eterno ritorno dell’identico Berlusconi destinato a risorgere un’incarnazione via l’altra – al netto della palude giudiziaria dalla quale non è ancora uscito – e a deludere così la turba degli aspiranti medici legali che di giorno in giorno ne certificano la morte politica. Però sempre lì siamo: c’è un quantum d’improvvisazione, di litigiosità, d’isolamento internazionale e di fragilità strutturale che caratterizza il nuovo potere gialloverde; coglierne il profilo significa allargare lo spazio d’iniziativa e uscire dall’angolo del deprezzamento politico. Ma con quali armi?
E’ verosimile che Salvini avrà il suo da fare per sedare lo sconcerto crescente d’un mondo imprenditoriale che si sente aggredito dalla svolta paleosindacalista pentastellata. Su questo passaggio traumatico Forza Italia, quel che ne resta e in tempo utile per scongiurare la propria subalternità, sceglie la via dell’opposizione strategica con l’obiettivo di fissare un segnacolo in campo aperto
Il berlusconismo rappresenta una minoranza sofferente ma non inerme. Come dimostrano la questione Dignità e la partita delle nomine di Stato, Forza Italia oppone a Salvini uno schema simmetrico a quello del doppio forno adottato dal leader e vicepremier leghista: accanto a lui sulle questioni securitarie e sulla gestione del braccio di ferro europeo intorno al dossier migratorio; contro di lui, ma senza ibridarsi al Partito democratico, sui provvedimenti economici sbilanciati verso i grillini; accanto ai rimasugli del renzismo nel denunciare vere o presunte forzature istituzionali in materia di spoils system.
E’ tutta tattica, ovviamente, ma può diventare un metodo. A patto di non dare la sensazione di voler rimettere in piedi un Nazareno degli sconfitti, strategia perdente in partenza e anzi gravida di controindicazioni fatali. Non ultima la proiezione in campo leghista dell’idea che il centrodestra è davvero finito, e che a quel punto conviene trasformare la scappatella con Luigi Di Maio in matrimonio d’interesse.
Sullo sfondo c’è il bisogno di ridefinire sia il perimetro sia l’offerta politica di un nuovo rassemblement liberale, patriottico e dichiaratamente identitario. Uscire, per lo meno idealmente, dalla morta gora dell’europopolarismo potrebbe essere un gesto interessante. Al contempo occorre marcare un passo se possibile più coraggioso: la rottura del centralismo carismatico berlusconiano a beneficio di una successione ordinata e collegiale al sovrano di Arcore. Una manovra non necessariamente fulminea e che, quasi per gemmazione, produca un’alleanza di confederati alternativa alle sinistre (M5s e Pd) e predisposta a un incontro rifondativo con la massa critica leghista guidata dal leader naturale. Che piaccia o no si chiama Matteo Salvini.