Ottavi di finale. Gara secca. Dopo quasi 70 minuti di gioco a tifare una incredibile nazionale giapponese che ti fa pensare agli anni d’oro di Holly e Benji e che sta portando a casa una vittoria senza senso per 2 a 0 contro il Belgio, una delle outsider favorite, qualcosa si rompe e, nel giro di pochi minuti la partita si ribalta. 2 a 1. 2 a 2. E poi, a pochi secondi dal fischio finale, 2 a 3. Il Belgio ha appena vinto una partita pazzesca e il Giappone ha appena fatto l’harakiri più grande della sua giovane storia calcistica.
Alla fine di un ottavo finale del genere il primo pensiero è di odio e rancore verso i vincitori, quegli insensibili del belgi che, alla prima partita da favoriti veri, rischiano fino alla fine di uscire, ma si salvano per miracolo buttando fuori una delle squadre meno attese, ma più simpatiche e, soprattutto, più scarse. Da qui l’odio e il rancore per i belgi, ché giocarsi i quarti con loro invece che con quelle scarpe dei nipponici sarà un incubo e finiremo, già te lo senti, per uscire malamente come al solito.
Poi, però, di colpo una rivelazione: noi ai quarti non ci siamo. Di più, noi a questi mondiali non ci siamo nemmeno qualificati. E allora come è possibile che mi stia divertendo? Come è possibile che nonostante questo lutto insormontabile possa ancora gioire davanti a una partita di calcio?
La risposta è più facile di quel che sembra: gol pazzeschi negli ultimi minuti di gioco, ribaltoni impensabili di partite che sembravano ormai scritte, brillanti rivelazioni di nuovi, giovani e — ogni tanto pure abbastanza impensati — talenti e sordi tonfi di stelle in caduta libera che fino a ieri eran intoccabili: questi Mondiali di Russia si stanno rivelando come una edizione frizzantissima, divertente, che non disdegna sorprese e che, per la prima volta, potrebbe essere vinta da una nazionale che mai prima avrebbe pensato di mettere le mani sulla coppa del Mondo. Ovvero. Insomma, per dirla più semplice: sono i migliori mondiali che ci potessimo augurare.
Ma c’è un’altra parte di risposta che ora abbiamo il dovere di dirci, senza paura. Al di là di quello che sta accadendo in campo, la condizione necessaria per questa inaspettata goduria sportiva che ci siamo ritrovati per le mani è, ovviamente, la nostra mancata qualificazione. Un fatto che, lungi dall’essere una tragedia come l’avevamo dipinta, è stata semplicemente una benedizione senza la quale avremmo affogato tutta questa bellezza in un catino di bile, in risse furibonde su Balotelli sì o Balotelli no e nel solito, classicissimo, noiosissimo e poverissimo teatrino di un paese che di colpo si ritrova ad essere composto da una popolazione di allenatori, tattici e strateghi di calcio.
Sì, è ora di dircelo: non giocare questi mondiali è una sensazione liberatoria. Ci siamo disperati per mesi, ne abbiamo fatto una catastrofe, siamo persino arrivati a commiserare una generazione di piccoli tifosi che si è ritrovata orfana del diritto di tifare gli azzurri (ehm, sì, è successo davvero), eppure ora, che i mondiali di calcio russi sono arrivati alle fasi finali, ora che abbiamo assistito con il sorrisone all’eliminazione della Germania, i nostri simpatici nemici di sempre, ora che abbiamo goduto dell’eliminazione ai rigori della Spagna e che possiamo tifare senza il cuore pesante dal timore di incrociarla e uscire malamente qualche croccante outsider tipo Belgio e Croazia o canticchiare in libertà il coretto di Football’s coming home, è difficile dire che non ce la stiamo godendo alla grande.
Insomma, la mancata qualificazione dell’Italia a Russia 2018, che dal punto di vista sportivo ed economico è stato un dramma, dal punto di vista sociale è un grandissimo regalo, per di più totalmente inatteso: depurato della bile del tifo, bonificato del fanatismo che ci prende ogni qual volta scende in campo la nazionale — e che ci porta inspiegabilmente a tifare giocatori che durante l’anno detestiamo con tutte le nostre forze — ma, ancor di più, mallevato di quel brutto nazionalismo di cui purtroppo stiamo assistendo alla più bieca delle rappresentazioni anche fuori dagli stadi, nel paese reale a trazione pentaleghista, finalmente ci siamo ritrovati a guardare semplicemente un mondiale di calcio e a goderne come non ci succedeva da anni, al riparo di ogni possibile amara delusione.