C’è ancora un abisso tutto da colmare fra i tuìt della maggioranza gialloverde e le prove documentali che il governo stia governando a pieno regime. Al netto dei proclami tonitruanti del premier de facto Matteo Salvini, fatta la tara sulle sue prove di forza internazionali in materia d’immigrazione e difesa dei confini nazionali, che cosa appare nelle prime pagine degli annali della legislatura? Ancora poco, con qulche attenuante, molti punti interrogativi e alcuni motivi d’inquietudine su quel ci aspetterà dopo l’estate, quando la prova costume populista diventerà ordalia intorno alla prima legge di Stabilità dell’esecutivo pentaleghista.
A uno sguardo d’insieme, si coglie un vuoto nell’organigramma dei ruoli e delle funzioni su cui si basa l’azione e la valutazione di una maggioranza operativa. La partita delle deleghe di sottogoverno rimane ancora aperta, relegata com’è nella terra incognita delle trattative e dei veti incrociati che comprendono anche le nomine ai vertici delle partecipate, a loro volta subordinate al groviglio dei negoziati sulle due principali commissioni bicamerali di garanzia: il Copasir e la Vigilanza. La mega macchina dello Stato avanza al trotto, mentre il partito avanguardia dei consoli Salvini e Di Maio s’attarda nel prendere le misure del dispositivo pubblico senza rinunciare a lanciarsi in sortite d’avanscoperta.
Il capo leghista sta incassando attenzione e consensi grazie a uno spericolato braccio di ferro con la declinante leadership europea franco-tedesca, e non c’è dubbio che sia un successo per lui l’aver posto l’Unione europea al cospetto dei propri incerti e fallimenti nella gestione dei rapporti statuali e delle emergenze migratorie. Ciò detto e constatato, in attesa del vero esame rappresentato dalla compatibilità della flat tax e della controriforma pensionistica con i vincoli esterni di bilancio, la Lega si prepara a incamerare un altro risultato mediatico con l’imminente riforma che allarga le maglie della legittima difesa a suo tempo ideata da Nicola Molteni (in concorrenza stavolta con Forza Italia, che ha ridepositato la porposta Gelmini datata 2015). È un percorso senza troppi ostacoli, questo, poiché come noto non implica alcun attentato alla spesa corrente.
C’è ancora un abisso tutto da colmare fra i tuìt della maggioranza gialloverde e le prove documentali che il governo stia governando a pieno regime. Al netto dei proclami tonitruanti del premier de facto Matteo Salvini, fatta la tara sulle sue prove di forza internazionali in materia d’immigrazione e difesa dei confini nazionali, che cosa appare nelle prime pagine degli annali della legislatura?
Sull’altro fronte c’è il vice premier Luigi Di Maio il cui decreto Dignità è destinato a una tempestosa parlamentarizzazione e già sembra un debole segnacolo politico, circondato com’è dallo scetticismo delle imprese sempre più spaventate dalla possibilità che il leader grillino esca disordinatamente dall’immobilismo cui è consegnato dalla congenita lentezza dei dicasteri da lui guidati, Sviluppo e Lavoro. La percezione di uno slittamento dall’immediatezza dello slogan acchiappavoti al gradualismo della messa in opera è più che fondata. Con il suo linguaggio nient’affatto paludato, anni fa Silvio Berlusconi azzeccò una sintesi perfetta che vale anche per il momento presente: nell’ordine del giorno in Consiglio dei ministri entrano focosi dentrieri ma poi ne escono ippopotami.
È al tempo stesso il pregio e la condanna della democrazia parlamentare. Sempre in linea con la massima citata, ce n’è però un’altra dello stesso Berlusconi che, nel pieno dell’impasse, cercava sempre di estrarre “un dinosauro dal cilindro”: il cambio di passo, la rottura degli schemi consolidati, l’invenzione che non ti aspetti. Ma nel caso in esame la metafora del dinosauro esprime il presupposto logico e cronologico della maggioranza gialloverde, ora si tratta di sondarne le mosse.
E torniamo al punto di partenza. Di là dall’impeto sbrigativo con il quale i consoli approcciano i loro (e quindi i nostri) problemi quotidiani, esiste una dimensione meno visibile dello Stato al cui interno si manifestano resistenze, percorsi obbligati e spesso labirintici, poteri collaterali che talvolta frenano talaltra capovolgono il senso e la direzione di marcia dei provvedimenti che sono chiamati a esaminare. Dalla Ragioneria generale dello Stato ai vari uffici tecnici, dai più alti organi costituzionali (Consulta, Corte dei Conti, Consiglio di Stato) ai terminali ultimi della decisione politica, esiste un insieme di forze invalicabili (et pour cause) sulle quali s’è già infranta la velleità disintermediatrice di altri caudilli come Matteo Renzi.
Si aggiunga il paesaggio delle corporazioni industriali e sindacali, dell’Accademia e dell’editoria impura, e si avrà grosso modo l’immagine del così detto establishment. Che non è una parolaccia ma un filtro necessario e una cornice di sistema entro la quale anche i populisti di governo avrebbero interesse a collocare il loro modus operandi, non essendosi mai conosciuta finora alcuna componente antisistemica che non ambisse a farsi essa stessa sistema. Fuori dal lessico della politologia, per la Lega e i Cinque stelle si prepara un avvenire nel quale sempre meno spazio dovrebbe avere la dimensione della rivoluzione permanente simil trotzkista, e sempre più agibilità dovrebbe invece trovare la ragion pratica applicata alla scienza del possibile. Vale a dire il terreno in cui già si muove con destrezza circospetta il ministro dell’Economia Giovanni Tria, la cui bonomia non oblitera certo la volontà di rassicurazione e difesa della nostra stabilità finanziaria, uno dei numerosi volti di cui si compone il caleidoscopico interesse nazionale.