Come tutte le estati, poco prima dell’inizio della scuola, anche quest’anno si comincia a discutere di quale sia il modo migliore per far portare ai propri figli l’immenso penso della loro formazione. Lasciare loro utilizzare il muscolo più possente che hanno, che son poi le chiappe, portando il peso con lo zaino sulle proprie spalle, oppure, al contrario, far loro usare il trolley, arrendendosi alla più medioevale delle invenzioni umane e trasformando i nostri figli in piccole copie di loro stessi anziani, quando senza il trolley non potranno nemmeno andare a comprarsi il latte?
La domanda è malposta e la polemica assurda, perché si accanisce sul dito — zaino o trolley — e oblitera totalmente l’esistenza della luna, ovvero il reale problema di questi nostri poveri figli studenti: l’assurdità vicina al grottesco di dover possedere tutti i 147 libri imposti dal programma ministeriale e scelti dal Collegio Docenti, divisi in 371 volumi più 186 dispense, senza contare poi i 132 quaderni, i diari, gli astucci e magari pure una scarna merendina.
Se contiamo tutti volumi e volumetti che la scuola moderna impone rischiamo di arrivare comodamente a quasi una ventina di chili per cranio. Circa la metà, o quasi, del leggiadro peso medio delle nostre creature, con i conseguenti rischi per la loro salute e quella delle loro schiene.
Ma a che diavolo servono tutti quei libri? Fossero per intero il patrimonio della cultura occidentale lo capiremmo anche, ma in questo caso si tratta di sussidiari, di manuali e di eserciziari ovvero roba concepita da ragionieri dell’istruzione solo per vendere della carta a quei poveretti. Perché di cultura, quella con la maiuscola, dentro quei tomi ne trovi quando va bene dosi omeopatiche.
L’urgenza, al contrario, è molto chiara: serve che qualcuno vada a spiegare ai funzionari del Ministero che decidono i programmi e impongono la necessitò di adottare 194 libri di testo ogni anno, che la cultura non ha bisogno di tutti questi chili di carta, cartone e cartoncino. Che ricordi ai quei polverosi burocrati che per insegnare a usare la testa, servono i libri quelli importanti, mica quelle baggianate, ma soprattutto serve raccontarli per bene, quei libri.
Dal 1936 al 1947, il tedesco Erich Auerbach visse in esilio volontario a Istanbul per sfuggire alle leggi razziali del regime hitleriano. Lì, utilizzando una biblioteca quasi del tutto sfornita dei libri di cui aveva bisogno, scrisse alcuni dei saggi critici più importanti della storia della letteratura mondiale. Dopo la guerra quei testi vennero raccolti in un’opera gigantesca, stampata in due volumi, dal titolo Mimesis.Il realismo nella letteratura occidentale, una delle opere capitali della critica letteraria di tutto il Novecento.
Difficile trovare una storia che più didascalicamente mostri, nella più totale e limpida evidenza, quanto la cultura e l’istruzione non siano mai una questione di peso, ma di profondità. Non di quantità, ma di qualità. Non di accumulo, ma di selezione e, spesso, anche di caso. E se non abbiamo ancora citato il fatto che siamo nel 2018 e che tutti quei chili di carta ormai potrebbero essere sostituiti da un device dell’immane peso di circa 3 etti non è una dimenticanze. Perché questa verità è vera dagli incunaboli e sarà vera fino a dopo i chip nel cervello: la scuola deve insegnare a usare la testa, non a riempirla di chili di nozioni inutili, scritte su libri inutili, divisi in volumi inutili e rinnovati ogni tre mesi solo per tenere a galla una filiera immensa che chiamiamo Editoria Scolastica.