Aprire la app di UberEats, scegliere il ristorante preferito e in pochi minuti il fattorino in bici è alla porta. Sembra tutto facile, ma non lo è. Dietro una consegna a domicilio di UberEats, spin off della piattaforma americana più odiata dai tassisti, esiste un dedalo di società terze e modalità contrattuali diversificate per i fattorini con il baule verde che sfrecciano nelle nostre città. Una volta selezionato il piatto sullo schermo dello smartphone, si attiva un rider a bordo della sua bicicletta. Ma i lavoratori non sono tutti gli stessi, “spacchettati” tra i diversi partner ai quali Uber si affida per gestire ristoranti e fast food con i flussi di consegne più alti.
Operativa in Italia dall’ottobre del 2016, prima a Milano poi in altre città, tra i sindacalisti UberEats è nota come la “più flessibile” tra le piattaforme del food delivery. Per i fattorini è solo “la peggiore”, per pagamenti e condizioni lavorative. I rider utilizzano una app simile a quella usata dagli autisti di Uber. E, come la casa madre, la società non si ritiene parte di nessun rapporto di lavoro, neppure autonomo.
UberEats mantiene la figura di solo fornitore della tecnologia, convogliando su di sé unicamente i rider che non superano i 5mila euro di guadagni lordi annui. Oltre questa soglia, i fattorini di Uber lavorano per altre società del settore della logistica. A Milano i partner sono due: la Livotti srl e la Flash Road City srl. Quest’ultima si occupa di gestire soprattutto le consegne dei panini di Mc Donald’s, con la quale Uber ha stipulato una collaborazione a livello globale (proprio grazie al servizio svolto per McDonald’s, UberEats è sbarcata anche in città come Monza, Napoli, Rimini, Reggio Emilia e Roma).
«Ci sono due tipologie di corrieri che operano sulla piattaforma di UberEats», spiegano da Uber, che ha centinaia di rider (i numeri non vengono specificati) attivi in Italia. «I corrieri indipendenti, che effettuano prestazioni di lavoro autonomo occasionale per conto dei ristoranti, e i corrieri alle dipendenze di società terze che operano nel settore della logistica». Occhio alle parole, nessuno “lavora” per Uber quindi: si lavora per i ristoratori o altre società.
L’unico pezzo di carta fatto firmare ai fattorini di UberEats, in effetti, è un testo in cui la piattaforma si definisce come semplice intermediario (marketplace) di incontro tra consumatori, ristoranti partner della app e rider che – precisano dall’azienda – «operano per conto dei ristoranti attraverso la piattaforma UberEats». Poi sono ristoranti e fattorini che stipulerebbero tacitamente, ordine dopo ordine, le singole collaborazioni per ogni consegna.
I fattorini non hanno compenso orario. L’azienda non vuole specificare percentuali o retribuzioni medie, «per ragioni competitive». Ma i fattorini di Milano raccontano di una paga di circa 3 euro per pasto portato a domicilio, più un euro a chilometro percorso. I turni non sono predeterminati: ognuno si logga quando vuole e nell’area che preferisce; in caso di mancata accettazione UberEats interviene per rintracciare il fattorino più vicino. Anche per i corrieri dipendenti di società terze, Uber lascia loro la libertà di scegliere quando e dove andare online. In questi casi, però, è possibile che le società che li impiegano assegnino loro condizioni di lavoro, come fasce orarie da rispettare.
I rider utilizzano una app simile a quella usata dagli autisti di Uber. E, come la casa madre, la società non si ritiene parte di nessun rapporto di lavoro, neppure autonomo
Tra i rider la app si è guadagnata la fama di «peggiore piattaforma» sul mercato rispetto a competitor come Deliveroo, Foodora o Glovo. A Milano i fattorini di UberEats sono quasi tutti immigrati e richiedenti asilo, autorizzati a lavorare dopo 60 giorni dalla presentazione della domanda di protezione internazionale. Tra questi ragazzi, che spesso conoscono solo poche parole di italiano, in assenza di alternative UberEats sembra quasi un passaggio obbligato. Molti dicono di aver cominciato a lavorare senza aver mai firmato nulla. E in tanti si spostano a Milano, capitale del food delivery, proprio puntando a farsi arruolare tra i fattorini in verde.
Formalmente, per questa prima fascia di rider, il rapporto contrattuale è quello della prestazione di lavoro autonomo occasionale con ritenuta d’acconto, che non può superare il guadagno di 5mila euro lordi l’anno. Superato il tetto, il sistema di UberEats “sputa fuori” il fattorino. Ma non del tutto.
E qui cominciano le ramificazioni. «Superati i 5mila euro, qualche rider resta fuori, altri vengono fatti passare alla Livotti», raccontano i fattorini radunati all’ombra delle colonne di Porta Ticinese, a Milano, in attesa che arrivi la richiesta di consegna dalla app. Livotti srl è una società di logistica e supply chain, costituita nel luglio 2014, di proprietà della società fiduciaria Partecipazioni e investimenti srl, che opera in Italia e all’estero per diversi clienti, inclusa Uber. Passati da UberEats a Livotti, «la società ci fa dei contratti co.co.co, ma senza una retribuzione fissa, e sempre con pagamento a consegna», raccontano i fattorini.
Di UberEats resta la app, i committenti formalmente sono i ristoranti, ma i rider lavorano per un’altra società. E lo stesso accade con l’altro partner commerciale di UberEats a Milano, la Flash Road City srl, che utilizza la app per gestire le consegne per alcuni ristoranti partner, Mc Donald’s in testa. A fine giugno, sul sito Bakeca.it, la società ha pubblicato un annuncio per la ricerca di nuovi fattorini con disponibilità “full time” come liberi professionisti o con Partita Iva: «Per nuovo progetto siamo alla ricerca di *pony express* per consegne in Milano di corrispondenza e piccoli plichi. Non è richiesta l’esclusiva, ma la disponibilità. Servizi gestiti con software che installeremo sul vostro cellulare. Se nella tua giornata vuoi incrementare il numero delle consegne, disponi di uno scooter e di un cellulare con internet, GOOD!!!»
A Milano i fattorini di UberEats sono quasi tutti immigrati e richiedenti asilo, autorizzati a lavorare dopo 60 giorni dalla presentazione della domanda di protezione internazionale. Tra questi ragazzi, che spesso conoscono solo poche parole di italiano, in assenza di alternative UberEats sembra quasi un passaggio obbligato
Uber, spiegano dall’azienda, si affida a queste società «per garantire ad alcuni ristoranti partner con alti flussi di richieste un servizio professionale in grado di gestire le loro necessità anche in fase di picchi di lavoro e in location non agevoli dal punto di vista logistico». Una volta raggiunta la soglia dei 5mila euro, «il singolo corriere non può più operare come indipendente, ma questo non impedisce a società terze di impiegare lo stesso corriere alle proprie dipendenze».
Uber, però, si tira fuori da ogni responsabilità nella stipula dei contratti di lavoro con le altre società: «I diversi partner commerciali hanno processi di ingaggio delle loro risorse non controllati da Uber, che non ha alcuna visibilità sui singoli accordi. Le organizzazioni agiscono in modo differente e autonomo, e non ci sono legami organizzativi sulla gestione delle risorse», precisano dall’azienda.
«La modalità con cui lavora UberEats mostra una situazione ancora più grigia del mondo delle consegne a domicilio», commenta Mario Grasso, responsabile del sindacato Networkers della Uiltucs. «Sarebbe interessante capire se ci siano i presupposti per forme illegittime di intermediazione, per la quale però il Jobs Act ha previsto minori sanzioni. I lavoratori ancora una volta devono rivolgersi ai giudici per il riconoscimento di diritti e tutele da lavoro subordinato con i “soliti ricatti” occupazionali. C’è un problema di dignità del lavoro, oltre che di sfruttamento di vuoti normativi, sui quali queste società costruiscono il loro business».
Il prossimo tavolo sui rider al ministero dello Sviluppo economico è stato convocato per l’11 settembre. Gli annunci del governo di una battaglia per migliorare le condizioni di lavoro dei fattorini al grido “tutti subordinati” sono finiti quasi subito in ritirata. E sindacati e rappresentanze autonome denunciano al momento una situazione di stallo.
Intanto, in attesa della prossima convocazione, sotto le colonne di Porta Ticinese a Milano i fattorini di UberEats vanno e vengono. Giusto il tempo di ristorarsi qualche minuto all’ombra e poi ripartono. Di italiani ce ne sono solo due. Vengono tutti da Senegal, Nigeria, Mali. «Quelli che vedi fare su e giù sono tutti della Livotti e di Flash. Loro lavorano molto di più», racconta Giovanni (nome di fantasia). «Noi di UberEats abbiamo pochissime consegne». Passa un’ora ed è ancora seduto lì con lo smartphone in mano e la app aperta. La paura è che la “giornata lavorativa” sia andata completamente a “vuoto”. Di certo, il “rischio” di superare i 5mila euro di cottimo, visto da qui, è una chimera.