Rinviare le partite dopo le tragedie è un gesto inutile

L'ultima volta era successo dopo la morte di Astori a marzo del 2018, ma dopo il terremoto di Amatrice si optò per un minuto di silenzio. Che senso ha rinviare delle partite di calcio quando tutto il Paese va avanti e non si ferma?

OBERTO SALOMONE / AFP

Per ora la Lega ne ha rinviate due: Sampdoria-Fiorentina e Milan-Genoa. La prima avrebbe dovuto essere giocata domenica al Marassi di Genova, a circa 5 chilometri di distanza in linea d’aria dal luogo della tragedia del ponte Morandi. La seconda, prevista sempre domenica allo stadio Meazza di Milano, ovvero a circa 150 chilometri da Genova. Il motivo? Solidarietà alle vittime, ai feriti, ai dispersi e alla città della Lanterna.

Non è certo la prima volta. L’anno scorso, per esempio, un’intera giornata era stata rinviata dopo la morte del capitano della Fiorentina Davide Astori. Ma una procedura fissa non esiste e non sempre la pietas vince sul realismo. Ci sono esempi esattamente opposti, anche in situazioni molto più drammatiche. L’esempio migliore è il terremoto di Amatrice, in seguito del quale si optò per un minuto di silenzio in ogni gara del weekend. Sotto le macerie, all’epoca, erano rimasti in 249. E sì, risulta proprio difficile capire perché perché giocare dopo il crollo di Genova sarebbe immorale, mentre non lo era dopo una catastrofe come quella di Amatrice.

La verità è che, a meno di eventuali problemi evidenti e immediati di ordine pubblico e di sicurezza dei cittadini, ovviamente, rinviare le partite di calcio in segno di solidarietà alle vittime di qualsiasi sciagura è un gesto inutile, e perfino controproducente, sia dal punto di vista sociale e emotivo, sia da quello economico. Insomma, è un gesto sbagliato, soprattutto perché il calcio non è una festa, è un’industria, e non ha il minimo senso che un’industria si fermi quando accadono delle sciagure.

E infatti questo weekend, se anche non giocherà la serie A, tutto il resto dell’Italia di certo funzionerà regolarmente: i supermercati rimarranno aperti, i treni continueranno a funzionare e anche le autostrade, luogo della orribile tragedia a cui abbiamo assistito martedì, ovviamente rimarranno aperte e funzionanti. E probabilmente nessuno ci farà nemmeno caso.

Tornando al calcio: di possibilità ce ne sarebbero state molte altre. Piuttosto di rinviare due partite — ripetiamo, a parte problemi di viabilità della città di Genova, Marassi è più che agibile e San Siro è a 150 km dal ponte Morandi — e probabilmente di soli pochi giorni, si poteva, per esempio, giocare in tutti i campi e donare l’incasso di tutte le partite a un fondo per la ricostruzione, o per l’aiuto alle famiglie delle vittime. O fare il classico minuto di silenzio prima dell’inizio.

Ma fermarsi no, che senso ha? E non ha senso soprattutto per il calcio, che oltre ad essere un’attività commerciale, un’industria che muove cifre spaventose sia in sé che con il suo indotto, è anche un’attività sociale, sportiva, di comunità. Guardare una partita di calcio fa pensare ad altro, permette magari anche alle stesse persone coinvolte di ricominciare a guardare avanti. The show must go on, si diceva una volta, e lo show in questo caso che cos’è se non il calcio?

E se invece ci sbagliamo? Se fermarsi avesse veramente un senso? Perché allora è solo il calcio a farlo? È per la sua dimensione ludica e di spettacolo, quindi di divertimento? È questa che risulterebbe un affronto alle vittime e al lutto nazionale? E allora perché i cinema rimarranno aperti? E i teatri? E le piscine?

Se veramente avesse un senso fermare delle partite di calcio, allora dovremmo fermare tutto il Paese. Se veramente non giocare Sampdoria-Fiorentina e Milan-Genoa può essere di aiuto, in qualsiasi modo e in qualsiasi forma, ai parenti delle vittime, ai feriti, ai genovesi tutti, ai soccorritori e a tutta quella parte d’Italia che è stata colpita duramente dal crollo del ponte Morandi, allora fermiamoci tutti. Organizziamo uno immenso sciopero generale, incrociamo le braccia tutti, per un giorno intero e paralizziamo l’Italia. Perché limitarsi al calcio?

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