La madre di tutte le bugie: non è vero che mandando i pensione gli anziani aumenta l’occupazione tra i giovani

Non è vero che mandando i pensione gli anziani aumenta l'occupazione tra i giovani. Il vero problema è il declino economico del nostro Paese, la scarsa produttività e condizioni di lavoro peggiori che negli altri paesi europei

Simul stabunt vel simul cadent, l’espressione latina, normalmente utilizzata in più paludati contesti giuridici, può essere utilizzata per capire quello che sta accadendo nel mondo del lavoro a livello di rapporti tra l’occupazione dei più giovani e dei più anziani. L’evidenza degli ultimi anni è che quando c’è crescita aumenta sia il tasso d’occupazione di chi ha meno di 40 anni che di chi ne ha più di 55. E non è vero che la permanenza al lavoro di questi ultimi impedisce ai primi di trovare un impiego.

E’ chiarissimo nella UE in generale, in Germania, Spagna, persino in Grecia, e anche in Italia, dove prendendo per ogni trimestre i tassi di occupazione dei 15-39enni e dei 55-64enni vediamo che vi è, seppure non così palese come altrove, una correlazione positiva. Quando è alto uno è normalmente alto anche l’altro. E’ quanto accade nel 2018, quando si sono raggiunti i massimi per entrambe le fasce di età, anzi, con un aumento più pronunciato nell’ultimo paio d’anni per i più giovani.

È vero, in passato non è stato sempre così, dal 2009 al 2013 circa vi è stata una chiarissima relazione inversa tra l’occupazione dei 60enni e quella dei 20 enni e 30enni. Cresceva quella dei primi e calava quella dei secondi. Principalmente a causa di quell’apartheid lavorativo che vedeva, e vede ancora, i giovani molto più sacrificabili in caso di tagli al personale. Con contratti precari, tipicamente a tempo determinato, che basta semplicemente non rinnovare in caso di bisogno

Tuttavia appare chiaro essere stata la crisi economica la causa di questa divergenza tra i tassi d’occupazione delle diverse fasce di età, non la riforma Fornero, entrata in vigore solo nel 2012. Nel periodo in cui la nuova legge è stata attiva, anzi, le cose sono andate diversamente. Dopo gli ultimi due anni di crisi e recessione, il 2012 e 2013, per la prima volta da metà degli anni 2000 si è verificata una crescita sia per il lavoro dei più giovani che degli occupati più stagionati.

Non sono i 60enni in più al lavoro che impediscono ai giovani di uscire dalla disoccupazione, quindi. È la recessione, quando ci colpisce, e in generale il declino economico del nostro Paese, perlomeno in relazione al resto del mondo avanzato. D’altronde, lo vediamo chiaramente, la proporzione di “anziani” costretti a lavorare fino a 65 anni e oltre è in Italia ancora minore, nonostante la crescita di questi anni, che nel resto d’Europa. Sono il 51,8% contro una media europea del 57,2%, mentre in Germania, Svizzera, Svezia si supera il 70%.

E la differenza è ancora più evidente nel caso delle donne. Solo il 41,3% di quelle tra i 55 e i 65 anni lavora, contro il 51% di media UE.

Curiosità, superiamo i nostri vicini europei di circa 10 punti se prendiamo in considerazione i soli anziani laureati. Il punto è che numericamente sono pochissimi.E a differenza di quel che accade tra i giovani, non si tratta di lavoro precario, non più di quanto accada altrove. Gli ultra 55enni con contratto temporaneo sono il 6%, meno che nella media UE, e non ci sono stati cambiamenti rispetto al 2005 o al 2011. Tutto il contrario di quanto accaduto ai 20enni e ai 30enni, tra cui i precari sono il 18,8% (per quanto riguarda i 20enni) o l’8,8% (se guardiamo ai 30enni) di più rispetto alla media europea. Con enormi peggioramenti rispetto a 7 o 13 anni fa.

E allora perchè in altri Paesi, nel Nord Europa, in Svizzera, in Austria, dove il 60%-70% dei 60enni è occupato, la fatica del lavoro a questa età non è al centro del dibattito politico e non è percepita come emergenza? Non è solo una questione di mentalità e cultura. Ma si torna al problema del declino italiano, della scarsa produttività, legata del resto alla crescita così scarna. E che produce una conseguenza, il fatto che in Italia si lavora male, anche a 60 anni, non precari, magari, ma qualitativamente in condizioni peggiori: più ore che altrove, in ambienti meno salubri, in contesti più stressanti, in mansioni più elementari e meno appassionanti. Per esempio sono di meno coloro che possono ricorrere al part time, anche tra i 55-64enni. Il 13,7% contro il 21,8% della media UE. E il divario aumenta tra le donne.

Sono anche di più i 60enni che devono lavorare la notte, il 7,2%, contro il 4,8% della media UE

È un divario che d’altronde non esisteva nel 2011. Sono il 28,5% contro il 19,4% medio della Ue coloro che invece lavorano solitamente di sabato. Insomma, non c’entra le legge Fornero, che è il banale esito imposto di un calcolo matematico finalizzato alla sostenibilità delle pensioni attuali e future, ma è la malattia cronica del nostro sistema economico che rende ai 60enni più insopportabile che altrove lavorare. La fatica di un lavoro meno produttivo, in piccole aziende in cui non è possibile un welfare paragonabile a quello di una multinazionale tedesca (con un welfare del resto carente anche a livello pubblico), spesso la notte o i weekend.

Finchè non è tutto il sistema a guarire, rifugiarsi in facili capri espiatori può solo peggiorare la situazione. Bruciare miliardi nella revisione della legge Fornero renderà più difficile proprio migliorare il welfare, la produttività delle imprese, tutti quegli elementi che possono consentirci di avvicinarci ai Paesi più avanzati, dove lavorare a 60-65 anni non è una tragedia.

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