Netflix è l’Amazon dell’audiovisivo. O meglio, punta ad esserlo e si muove come il gigante di Jeff Bezos, arrivando ad avere un valore di mercato superiore a Disney e agendo con aggressività inedita. Tranquilli, non lo è ancora, ma è soltanto perché il mondo dello spettacolo non funziona esattamente come il mondo del retail. Ci vuole più tempo, ma la strada è quella: o si mangia tutto il resto, o muore. È questo quello che sembra emergere dalla strategia che la creatura di Reed Hastings sta mettendo in pratica negli ultimi anni, a tutti i livelli: finanziario, produttivo, pubblicitario.
Negli ultimi tre anni, secondo quanto riporta il New York Times, l’azienda americana ha ampliato il suo debito fino a 8,4 miliardi dollari, cedendo solo tra aprile e novembre scorsi 3,5 miliardi di debito. Cosa se ne fa di tutti questi soldi? Molto semplice: investe. Investe in produzione — solo per il 2018 ne aveva messi in cantiere 8 miliardi — ma anche in marketing, perché la guerra con i competitor non si misura solo in quantità dell’apprezzamento, ma anche in qualità: più importante di essere fighi, a questo mondo, è il farsi raccontare come tali. A questo servono i 2 miliardi preventivati quest’anno per il marketing. Se non riuscite a quantificare cosa vuol dire, pensate che HBO, sostanzialmente il suo concorrente di Netflix, ne investe pochi di più per i prodotti, di cui solo 1,3 in prodotti proprietari.
La strategia di Netflix è rischiosa? Be’ sicura sicura non è, perché aumentare il proprio debito in questa misura comporta rischi come l’emissione di bond a 10 anni che infatti Moody’s valuta come “Ba3”, ovvero nell’ultimo gradino prima dell’area detta degli investimenti considerati “altamente speculativi”. Per capirci, rispetto alla valutazione dei titoli italiani che ci fanno tremare i polsi, e che sono a quota “Baa2”, siamo tre gradini sotto, in un territorio definito dagli investitori a rischio speculativo.
Ma ciò non vuol dire che Netflix stia giocando con il fuoco, o meglio, di certo non lo sta facendo sul breve periodo. Ma di certo questa strategia aggressiva sul mercato ci permette di riflettere sulle sue potenziali ricadute culturali e ci dice qualcosa di molto interessante sul suo orizzonte, che, anche se forse non ci sembrerà vero, è sostanzialmente lo stesso di Amazon, di Facebook, di Google: non competere, dominare.
La guerra con i competitor ormai non si misura solo in quantità dell’apprezzamento, ma anche in qualità: più importante di essere fighi, a questo mondo, è il farsi raccontare come tali
«Move fast and break things. Unless you are breaking stuff, you are not moving fast enough», Muoviti veloce e spacca tutto. Se non stai rompendo roba vuol dire che non stai andando abbastanza veloce. Era il lontano 2009, e a dire questa frase fu un ragazzino imberbe di 25 anni di nome Mark e di cognome Zuckerberg, un che stava letteralmente conquistando il mondo con una invenzioncina che in soli 4 anni e partendo da un dormitorio di Harvard, aveva già 300 milioni di utenti, 500 milioni di dollari di revenue e 6 di valore azionario.
Sembrano passati due secoli, ma non sono nemmeno dieci anni e quella frase è diventata il mantra di una serie di gigantesche imprese crossmediali: oltre a Facebook anche Google e Amazon, le cosiddette OTT, Over The Top. E se quando queste imprese sono entrate nel mercato tutto funzionava ancora in modo “novecentesco” e per essere vincenti si doveva diventare i re della propria foresta, ora si ritrovano in un mondo totalmente nuovo, un mondo a cui sono perfettamente adattati, un mondo in cui, per essere vincenti, bisogna diventare direttamente la foresta.
È successo tutto in dieci anni: Amazon è diventato il luogo dove circolano più di metà dei dollari spesi dagli americani, facendo fuori i suoi diretti concorrenti sia fisici che virtuali; Google ha spazzato via sia gli altri provider che gli altri motori di ricerca; su Facebook trascorriamo la maggior parte del tempo che passiamo davanti a qualsiasi device — solo di traffico mobile detiene l’80%. Sembra proprio che questo sia il nuovo modo di fare le cose. Il mantra non è più, quindi, trova il tuo oceano blu e diventa il più bravo di tutti, ma conquista il tuo mercato, e poi uccidili tutti.
Detta così sembra brutta, ma è sostanzialmente questo l’obiettivo di Netflix, quanto meno nel mercato degli audiovisivi, che nei prossimi dieci anni dovrà conquistare totalmente se vuole riuscire a sostenere i suoi massicci investimenti — ricordiamolo, 8 miliardi, più 2 di marketing, solo quest’anno. Per questo il trimestre scorso, quando gli investitori hanno annusato una piccola flessione sul numero di abbonati si sono preoccupati. Anche se ora, a una settimana dalla pubblicazione dei risultati del terzo trimestre, nuovamente ottimi, in molti si sono tranquillizzati, il futuro appare decisamente frizzante.
Nel mondo “novecentesco” e per essere vincenti si doveva diventare i re della propria fores, ora si ritrovano in un mondo totalmente nuovo, un mondo a cui sono perfettamente adattati, un mondo in cui, per essere vincenti, bisogna diventare direttamente la foresta
Netflix chiuderà l’anno, se tutto va come se lo immaginano nei suoi quartier generali, con più di 145 milioni di abbonati, con una crescita prevista di quasi 10 milioni — 9,4 secondo le loro dichiarazioni riportate da Variety, di cui 7,6 a pagamento — ma non potrà certo fermarsi. Per questo la prossima grande missione sarà la conquista di nuovi mercati internazionali come l’India e, nel contempo, la conquista di settori del mercato europeo, che ancora non ha: dopo i nerd, il mainstream e il cult.
Cosa significano tutte queste cifre dal punto culturale ed estetico, che è poi quello che interessa a noi comuni spettatori? Significa che quella che ci è entrata in casa come una rivoluzione estetica tutta nostra, come un certificato di dominio estetico che sapeva di rivincita agli occhi di tutti i nerd occidentali, sarà solo una parte della enorme faccia di Netflix. Una faccia che, intanto che spende 2 miliardi all’anno in marketing per farsi bella, investirà anche e soprattutto in prodotti che con l’estetica che l’ha resa celebre in tutto il mondo non c’entrano proprio per niente.
Non è un caso che, per restare solo in Italia, dopo l’acquisizione di prodotti come Don Matteo e Fantaghirò, che rispettivamente ampliano il pubblico dai nerd alle nonne e accontentano i tetti di produzione imposti dall”Europa, ora si mettano a produrre le nuove Vacanze di Natale. È per questo che la prossima mossa sarà sbarcare in India. Sono prodotti che non c’entrano assolutamente nulla con Black Mirror, né con Stranger Things, né con quelle perle da festival come Roma di Cuaron o Okja di Bong Joon-ho. Ma è questo quello che serve per vincere nel ring dell’economia dell’attenzione, ovvero il campo da gioco su cui si concentreranno le OTT da qui ai prossimi dieci anni, un campo dove alla fine, se le regole di ingaggio non cambiano, rischia di restarne probabilmente soltanto uno.