Quello tra arte e potere, tra letteratura ed etica, tra poesia e ‘politica’ è il tema fondamentale. Il poeta è il tipo assiso sulla torre d’avorio che scrive dilettanti – e delittuosi – versi oppure l’eroe che scende nell’agone facendo del canto un inno alla rivolta? Né l’uno – l’asso nella manica del potente – né l’altro – idem. Boris Pasternak che traduce Shakespeare durante la Seconda guerra, garantendo una fratellanza letteraria e la fiamma della tradizione mentre l’uomo si massacra mi pare una icona. La letteratura è sempre una rivolta: prima di tutto, contro il linguaggio dell’era presente, del potere dominante, che logora l’intelligenza. Ora. Una cospicua pietra sul tema – scrittori&potenti, narratori&Storia – la mette Daniela Padoan, che ha curato, sotto il titolo Per amore del mondo, una cospicua raccolta di “discorsi politici dei Premi Nobel per la letteratura” (Bompiani, 2018).
Il libro è interessantissimo per lo sguardo – politico, appunto, più che estetico od estatico – ancor più quest’anno che il Nobel per la letteratura è in quarantena, non si assegna, anche perché la Padoan non si fa intimorire dagli allori, anzi, affila il bisturi (“Non rientra negli intenti di questa introduzione esaminare i criteri dell’assegnazione del Nobel per la letteratura, né il modo in cui nel tempo i membri del comitato modificarono le interpretazioni dell’originaria volontà del fondatore, alternando un conservatorismo che indusse a respingere candidature come quelle di Lev Tolstoj, August Strindberg ed Émile Zola, a una ricerca di aperture che portò a premiare autori come Samuel Beckett e Wole Soyinka. È tuttavia interessante scorrere i nomi dei premiati negli anni cruciali della storia europea: quasi un esercizio collettivo di rimozione e afasia…”).
In altra sede ho scritto quanto penso, genericamente, degli scrittori che sul palco svedese hanno preferito l’orazione politica all’affondo estetico: nonostante il paracadute narrativo – con una retorica che spesso ipnotizza – rischiano di dire banalità. Il premio in sé, in fondo – vasto pubblico, tanti soldi, congrue ristampe – una contraddizione connaturata – il Nobel: un costruttore di dinamiti che premia il poeta, creatura dinamitarda – costringe il poeta, lo scrittore nelle pastoie dell’ovvio. E non basta indorare la pillola per renderla efficace. Detto questo, i discorsi dei poeti (“Il poeta è solo: il muro di odio si alza intorno a lui con le pietre lanciate dalle compagnie di ventura letterarie”, questo è Salvatore Quasimodo) sono senza dubbio più affascinanti di quelli dei governanti, e io non ho mai smesso di credere – contro Platone e Marx – in un governo dei letterati, dove è più potente chi scrive meglio e si definisce il codice penale incrociando la ‘Commedia’ con Amleto: sarebbe un regno più ingiusto, certamente crudele, assolutamente più bello.
Quanto alla convivenza tra arte e potere – la prima nasce in contrasto al secondo, come antidoto al veleno della tracotanza – mi affido al programma politico stilato da Iosif Brodskij nel suo discorso di accettazione: “per me non c’è dubbio che, se scegliessimo i nostri governanti sulla base della loro esperienza di lettori, e non sulla base dei loro programmi politici, ci sarebbe assai meno sofferenza sulla terra. Credo che a un potenziale padrone dei nostri destini si dovrebbe domandare, prima di ogni altra cosa, non già quali siano le sue idee in fatto di politica estera, bensì che cosa pensi di Stendhal, Dickens, Dostoevskij. Già per il fatto che il pane quotidiano della letteratura è proprio l’umana diversità e perversità, la letteratura si rivela un antidoto sicuro contro tutti i tentativi – già noti o ancora da inventare – di dare una soluzione totalitaria, di massa, ai problemi dell’esistenza umana. Come polizza di assicurazione morale, quanto meno, la letteratura dà molto più affidamento che non un sistema religioso o una dottrina filosofica”. Chi non ha letto Dostoevskij, chi non ha affrontato Manzoni, chi non si confronta quotidianamente con René Char e con Leopardi e con Rimbaud, prima che con i dati elettorali o con la liana impazzita dello Spread, non è in grado di guidare gli uomini. Tutto qui. Qui, piuttosto, interpello, da avvocato del diavolo (cioè, da uno che vuole andare oltre il perimetro delle proprie opinioni), la Padoan. (d.b.)
Il suo lavoro è interessante perché scava nei rapporti tra arte e politica, tra letteratura e potere. Lo scrittore non dovrebbe essere, costituzionalmente, ‘contro’ ogni forma di potere?
Senz’altro. È uno dei fili più saldi che percorrono il libro. Nell’arco di un secolo, molti scrittori sono tornati su questo argomento per dire che la letteratura non è finzione e pantomima solo a condizione di essere libera dal potere, se non addirittura di levarsi contro il potere. Nella sua tensione costitutiva a dare bellezza e grazia all’esistenza individuale – che è poi esattamente ciò che viene schiacciato sotto ogni forma di dispotismo – la letteratura porta sempre una voce critica. Lo dicono mirabilmente, nel discorso di accettazione del Nobel, Imre Kertész, Aleksandr Solženicyn, Gao Xingjian e Wole Soyinka, ciascuno testimone di un diverso e feroce universo concentrazionario, ricordando come le esistenze vengano inevitabilmente soffocate e infine estirpate laddove prevalga l’ideologia.
Anche quando è dalla parte che la storia recensisce come ‘sbagliata’, anche quando fa scelte “scellerate”, lo scrittore, tuttavia, a fronte dell’opera, non può essere demonizzato. Così leggo le sue parole in merito a Céline, Pound, Hamsun: sbaglio?
Per lo scrittore, come per chiunque altro, si possono e si devono giudicare le responsabilità individuali. Non esistono territori franchi per le azioni che si compiono. Ma non si può condannare la letteratura. Esiste buona e cattiva letteratura, questo è il solo discrimine. Ed è un discrimine potente, perché la letteratura che si mette dalla parte dei regimi o della loro opera di macelleria, inevitabilmente scade a propaganda o invettiva. Ne è un esempio la parabola di Céline, dalle altezze di Viaggio al termine della notte al precipizio di Bagatelle per un massacro. Condannare lo scrittore per la sua opera è insensato, prima ancora che crudele. Alla fine della Seconda guerra mondiale, Knut Hamsun, che nel 1920 era stato insignito del Nobel per la letteratura, quasi novantenne venne chiuso in manicomio per aver aderito al governo filonazista di Quisling: parliamo dell’autore di quel capolavoro che è Fame.
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