Bastone e carotaWu Ming e la Terranova scrivono nella stessa lingua. I loro editor imparassero da Maxwell Perkins

Contro l’editor di oggi, che non esalta più lo stile e la personalità dello scrittore ma annacqua ogni differenza, ogni peculiarità, per vendere un prodotto sempre uguale e sempre sciatto

Il bastone. Chi l’avrebbe mai immaginato: i Wu Ming che invitano a cena Caterina Balivo in attesa di convolare a narrative nozze. In effetti, il matrimonio tra la sorridente conduttrice Rai e il ‘collettivo’ di scrittori più noto del Paese meriterebbe un racconto inciso col coltello, ci vorrebbe H. P. Lovecraft.

Il fatto nuziale è questo. Al netto della trama – pretestuosa e pretenziosa quella di Wu Ming, scioccherella quella della Balivo – tra Proletkult (stampa Einaudi) e Gli uomini sono lavatrici (Mondadori) non c’è differenza formale. Pigliamo l’incipit. “Il venditore di frutta ancheggiava di fronte al caravanserraglio, reggendo sulla testa un vassoio di pesche e ciliegie. I piatti della bilancia appesa alla spalla tintinnavano come cimbali, agitati dai passi di una danza scomposta. Cantava con voce di contralto in un miscuglio di lingue”. Questo è Wu Ming; questa è la Balivo: “Quando dalla provincia di Napoli in cui ero nata me ne venni a Roma in cerca di fortuna e di una vita nuova, portai nel mio cuore una cosa sopra ogni altra: il sapore dei panini imburrati che mia madre mi infilava nello zaino prima che andassi a scuola. Il pane era fatto in casa col lievito madre, e sapeva di famiglia”.

Questa invece – una gang bang dell’ovvietà – è Nadia Terranova, Addio fantasmi (Einaudi): “Una mattina di metà settembre mia madre mi telefonò per avvisarmi che entro qualche giorno sarebbero iniziati i lavori sul tetto di casa. Disse proprio così: nostra”. Al di là del cibo (pesche e ciliegie i Wu Ming, panini imburrati la Balivo) e della mamma (Balivo & Terranova) i tre libri – romanzo il primo, confessioni non richieste gli altri due – sono caratterizzati dall’anonimato linguistico. La Terranova potrebbe aver scritto l’incipit del romanzo di Wu Ming, Wu Ming potrebbe facilmente interpretare i moti del cuore e gli impulsi verbali della Balivo. Wu Ming – testa fina, ma troppe teste non fanno un buon romanziere – scrive come se fossimo ancora al calesse e alla tuba, come se non fossero ancora nati James Joyce, Hermann Broch, ma neanche José Saramago e J. M. Coetzee o Kenzaburo Oe, scrittori di chiara fama dalla scrittura oscura, rivelativa. La Balivo, beh, pur dotata di una dose di ironia che me la fa anteporre agli altri – “L’amore finisce, gli uomini si cambiano, ma le lavatrici buone no” – scrive dall’attico di Facebook mentre la Terranova, sai che novità, ha come plastico riferimento, a leggerne la genealogia letteraria, Amélie Nothomb più che Anna Maria Ortese. Tutti e tre, presumo, condividono lo stesso editor.

Paolo Volponi – autore inammissibile nel consesso editoriale odierno, troppo complesso, lo pubblicano per pura onorificenza letteraria, come si accende un cero – molti anni fa aveva speculato intorno al ‘Senatore Segreto’, un politico fantomatico che in Parlamento tresca per far sì che il Governo, infallibilmente, pigli sempre decisioni fallimentari e scellerate. Quanto a me, penso che esista, da tempo, un ‘Super Editor’ che con viziato cinismo si sforzi di affossare la maestria degli scrittori, allineando il loro ‘stile’ al grado minimo della lingua, ideando una specie di grande magazzino dove un libro equivale a un altro, non c’è differenza tra la scrittura telegrafica e sciupata di Antonio Scurati che fa il ritratto al Dux e Paolo Cognetti che tenta la scalata dell’Himalaya (Senza mai arrivare in cima, Einaudi: “Partimmo ai primi di ottobre, quando sulle Alpi ormai si aspetta la neve, e sbarcammo in una Katmandu calda e polverosa, appena uscita dalla stagione del monsone”, frase da tema elementare, inaccettabile, poi, se si è scrittori, il binomio di aggettivi, “calda e polverosa”, che va bene per Katmandu come per Roma, per Napoli, per Buenos Aires e per Canicattì, indicativo dello scempio in disciplina linguistica).

D’altronde, tra gli ungulati filosofici di Massimo Recalcati (“Da quando ho cominciato a leggere seriamente – dalla terza media in avanti – tutta la mia vita è trascorsa fra i libri. Alcuni si sono rivelati dei veri e propri incontri”, questo è A libro aperto, stampa Feltrinelli) e le boutade di Vittorio Feltri (Il borghese, stampa Mondadori: “Finita la terza media, mi era rimasta la voglia di continuare a studiare, tuttavia non ne avevo le possibilità, allora pensai di recuperare un po’ di soldi magari allo scopo di riprendere la scuola. Dalla miseria sono uscito abbastanza presto, lavorando senza posa dai quindici fino ai diciassette anni”: mirate la differenza prospettica da terza media, tra Recalcati, nobilitato dai libri, e Feltri, sbattuto dalla vita) l’unica differenza è che Feltri, per lo meno, è più divertente, per questo gli editori mettono in batteria i giornalisti, non sanno scrivere ma sanno mordere – gli scrittori, di solito, oggi, hanno un cuore che sta tra il burro e la margarina.

Leggendo qua e là, sbattendo il cranio sullo stipite della biblioteca e mandando a cagare il libraio – possibile che non ci sia uno che osi una scrittura smodata e non modesta, uno che rischi la vita in un avverbio, uno che ci sorprenda? Perché poi non sorprendiamoci se per i liceali un racconto di Raymond Carver è già un rebus, una sciarada del nonsense – mi convinco che il ‘Super Editor’, quello che sadicamente sodomizza il genio e governa gli editor frustrati delle frustranti case editrici, abbia abborracciato delle norme valide per tutti, l’abbecedario dell’ottimo editor. Indago – è così. Così, dall’amico dell’amico dell’amico di un editor di quelli giusti, che lavora presso un editore-transatlantico, quelli che ti arredano la crociera bibliografica delle cretinate, riesco a estorcere il fatidico decalogo. Eccolo.

a) Scrivere tendenzialmente in prima persona, dando spago ai sentimenti superficiali del proprio fegato; altrimenti, optare per una terza persona non troppo ingombrante;

b) Descrivere il più possibile, in ‘presa diretta’, senza alcuna profondità;

c) Scrivere ciò che ‘si sente’, ciò che ‘si vede’, dimenticando che la scrittura è l’arte dell’allusione, dell’elusione, dell’analogia (non scrivo ciò che sento, ma il dolore che voglio far provare al lettore; non scrivo ciò che vedo, ma ciò che potresti vedere anche tra dieci secoli, indago l’imperituro);

d) Dare, cioè, priorità alla trama più che alla forma, non conta come scrivi ma cosa scrivi, il come è accessorio, il cosa te lo dice l’editore;

e) Usare frasi brevi (meglio) o lunghe (è uguale), purché siano insapori (cioè: assenza di una ‘urbanistica’ della frase, di una ‘topografia’ del capoverso; scrivere, lo sappiamo, non è un gesto ‘immediato’, ma strategico, non s’improvvisa la costruzione di una capitale né la disposizione di un esercito, pensate alla struttura grammaticale di Henry James: ma chi è in grado di leggerlo, oggi, James?);

f) Usare concetti riconoscibili, affinché il lettore non si senta spaventato ma compreso – compreso nelle proprie attese più stupide;

g) Stimolare l’empatia al posto dell’antipatia, essere simpatici e non repellenti (perché la repulsione è il metro della grande scrittura – leggere Thomas Mann o Dostoevskij provoca scatti d’ira e di rifiuto; leggere è una danza: prima si calpestano i piedi allo scrittore, poi se ne comprende il ritmo, la seduzione);

h) Intavolare il ‘dialogo’, interpellare il lettore (al contrario, la grande scrittura è imperiale, impietosa, assoluta: pretende l’obbedienza del lettore, perché lo scrittore si offre al lettore, dandogli in pugno l’ascia)

Soltanto dopo un po’ mi rendo conto che questa lista è datata, sorpassata. Mondadori ha pubblicato l’ultimo libro di Antonio Dikele Distefano. Si intitola Bozze, e che non sia neanche l’abbozzo di un libro ce lo dice lui – “Ciao, questo non è il mio nuovo romanzo ma testi che ho scritto nell’ultimo anno quando non sapevo come sfogarmi e non potevo piangere”: vedete, l’empatia? In un mondo normale il lettore, indignato, tirerebbe il libro in faccia al sedicente autore ricordandogli che lui, il lettore, non è una spalla su cui piangere, è una mente pensate con cui ragionare. Questo libro, grave di frasi di acuta vacuità, una pernacchia sulla vostra calotta cranica (vuota) – “Quando le scrivevo un messaggio, non so perché m aspettavo rispondesse subito. Invece no, certi giorni duravano anni”; “A lei non dissi e non feci mai capire che la sua età sarebbe potuta essere un problema” – non richiede il lavoro di un editor, ma solo quello dell’ufficio marketing. Dikele Distefano come Recalcati come Cognetti come Balivo come Wu Ming, in questa catena editoriale ciò che conta è la fama dell’autore, mica la sostanza del libro. Compri il libro per ‘parlare’ con l’autore per ‘entrare in contatto’ con lui. Il libro, in effetti, è la cosa meno importante, è l’inutile.

La carota. Pensare che non è difficile sedurmi. La Treccani giudica la sua scrittura “spesso ridondante e percorsa da un’intima esuberanza”. All’epoca – una decina di anni fa – era finito fuori catalogo. Il mix – scrittura titanica, scrittore impossibile – mi galvanizzò. Riuscii a trovare un libro di Thomas Wolfe, di cui quest’anno ricorrono gli 80 dalla morte, in una bancarella: Angelo, guarda il passato, Einaudi 1949 – quando Einaudi era Einaudi – traduzione di Jole Jannelli Pintor. Visto che oggi giochiamo agli incipit, sentite questo: “Un destino che conduce un inglese fino agli olandesi è abbastanza strano; ma uno che conduca da Epsom alla Pennsylvania, e di qui, alle colline che racchiudono Altamont, lasciandosi dietro l’orgoglioso canto sonoro del gallo e il dolce sorriso marmoreo di un angelo, è tocco da uno di quegli oscuri miracoli del caso che creano in questo mondo polveroso nuovi incanti. Ognuno di noi è tutte le somme che non ha mai contato: sottratti e riportati alla nudità e alla notte primitiva, si vedrà cominciare a Creta quattromila anni fa l’amore che è finito ieri nel Texas. Il seme della nostra distruzione fiorirà nel deserto, e il farmaco della nostra salvezza cresce ai piedi di una rocca montana, e la nostra vita è tormentata da una sgualdrina in Georgia perché un tagliaborse londinese è sfuggito alla forca. I giorni divoratori degli attimi ronzano come mosche verso la morte, meta ultima, e ogni momento è una finestra aperta sull’eternità”.

Inutile rimarcare l’ampiezza di questo sguardo verbale. La storia di Thomas Wolfe, comunque, è istruttiva riguardo al tema trattato. Wolfe fu accolto dal più formidabile degli editor, Maxwell Perkins, che lavorava per Scribner’s e aveva scoperto il talento di Francis Scott Fitzgerald e di Ernest Hemingway. Con Wolfe fu una lotta all’ultimo aggettivo: lo scrittore americano era incapace di dare forma coerente al suo romanzo dilagante, sfrenato. Perkins capì la natura furente, superiore di Wolfe; Wolfe accettò i consigli di Perkins. Nacque così uno dei titani della letteratura statunitense del Novecento. Badate ai dettagli: Perkins gestiva, come editor, l’opera di Fitzgerald, di Hemingway e di Wolfe. Tre scrittori dotati di tre scritture inconfondibili.

Il lavoro dell’editor non era quello di ‘normalizzare’ il linguaggio in favore del pubblico sovrano, ma di esaltare la sovrana e specifica qualità dello scrittore. La differenza, lo ‘stile’ era fondamentale, l’eccidio della norma in favore dell’anomalia e dell’anormalità. Così è stato anche in Italia: gli autori ‘da antologia’, da Tommaso Landolfi a Italo Calvino, da Giovanni Testori a Stefano D’Arrigo e Dino Buzzati, sono quelli che hanno una marcia stilistica – che sia piana o ermetica – indimenticabile.

Oggi, però, nell’era della musealizzazione dei grandi autori – li studiano solo gli accademici – e dell’imbecillità mediatica e medianica – si pensa che tutti possano scrivere, ma scrivere è una disciplina che pretende studio, tanto studio, come deve studiare l’arte chi suona il pianoforte o dà forma sinuosa al marmo – chi legge La Cattedrale di Testori o Horcynus Orca di D’Arrigo, libri protesi verso l’aldilà del romanzabile?

D’altronde, l’autore del più bel romanzo degli ultimi tempi, Andrea Temporelli – il romanzo è Tutte le voci di questo aldilà – ha pubblicato per un editore votato al fallimento (Guaraldi) e rifiuta la scena letteraria, la ritiene oscena, ormai, se ne sta intrufolato dalle parti del Lago d’Orta, e il grandissimo Thomas Wolfe, pubblicato come si deve appena quattro anni fa, da Elliot (O Lost. Storia della vita perduta), non si trova più in libreria, ‘non è disponibile’. Questo non è un paese di grandi scrittori? Piuttosto, è un paese di editori miopi.

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