Bastone e carota Ravasi è il cardinale che insegna a non leggere mai la Bibbia, meglio dedicarsi a Sergio Quinzio

Volete un teologo che non cita la Bibbia? Accomodatevi con Gianfranco Ravasi, vetta italica del biblismo pop. Volete un biblista vero? Leggete le opere di Sergio Quinzio

Tiziana FABI / AFP

Il bastone. Nelle prime quattro, spigliate, pagine introduttive l’Arcivescovo e architrave della cultura cattolica cita, nell’ordine: “l’imperatore Augusto”, “l’avvio dei Promessi sposi”, Francesco Petrarca, “il grande autore del Don Chisciotte, Miguel de Cervantes”, “il pensatore cinquecentesco Michel de Montaigne”, Giacomo Leopardi e “il grande Goethe”. La bulimia citatoria infastidisce, e ciò che sorprende è che il Cardinale Gianfranco Ravasi non si avventuri a citare la Bibbia; quando parla dei “lóghia evangelici” li avvicina alla “forza dell’aforisma, del detto essenziale, del tweet”, ho detto tutto, manco Gesù fosse un fringuello digitale qualsiasi. Per capire il Breviario dei nostri giorni con cui il Cardinale vuole scardinare il calendario cattolico – quello costellato dai Santi – bisogna partire dal fondo, dall’Indice dei nomi. In questa specie di centone di frasi buone a decorare la vostra giornata, sorta di calendario filosofico griffato dall’alto prelato, Balzac è citato più di Romano Guardini, Karl Kraus più di papa Giovanni XXIII, Tagore più di Benedetto XVI (citato quanto Roberto Benigni, Umberto Eco e Elvis Presley, “il popolare cantante americano”, usato per spiegarci la vertigine del Natale, perché “nella sua vita egli ha spesso unito corporeità e spiritualità, trasgressione e convenzione… ribellione e fede”). D’altronde, Alberto Moravia, Emil Cioran e Confucio sono considerati più di Carlo Maria Martini e di C.S. Lewis, mentre, per dire, di Giovanni Paolo II, uno che non ha proprio scritto poco, non v’è traccia. Costellato da didascalie biografiche francamente imbarazzanti (Gandhi è “il famoso sapiente e politico indiano”; Charles Baudelaire è “il grande poeta francese”; Patricia Highsmith è “una delle regine del noir” – che neanche il più barbaro recensore di Repubblica –; Balzac “uno dei grandi scrittori francesi dell’Ottocento”; John Lennon è “il cantante e chitarrista dei Beatles, morto tragicamente a New York nel 1980”, caso mai non ve lo ricordiate), proprie di chi predica cultura dal pulpito degli eletti, ritenendo i propri accoliti un’accozzaglia di cretini, un ammasso di perduti, il sommo Ravasi, nel suo faustiano Breviario, ha preso a noia la Bibbia. Il ‘dialogo’ propugnato con tutti, a ogni latitudine della fede – con musulmani, ebrei, protestanti, intellettualoidi papalini, soprattutto atei (con malcelato godimento l’Arci-arcivescovo si confronta con Bertolt Brecht, “il celebre drammaturgo tedesco dichiaratamente ateo”) – riduce il Dio cattolico a un pretesto pretestuoso, fastidioso, da chiudere nell’armadio medioevale delle cose che furono. Il problema non si pone solo quando l’eccelso Cardinale parla di Montaigne o di David Foster Wallace o di Henry Miller – se li voglio leggere non mi rivolgo certo agli algidi pensieri di un uomo di Dio – ma quando con impeto pop – catodicamente vetusto – gioca a citare Demi Moore e Moni Ovadia (attenzione alla dida: “noto artista di matrice ebraica”), Janis Joplin e Steve Jobs (dida: “il noto fondatore di Apple”), Stefano Benni e Daniel Pennac, quando noi vorremmo, dal presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, avere qualche ragguaglio riguardo al genio ipnotico di Isaia, alla voragine verbale di Giobbe, e magari percorrere i grandi padri e i sapienti della cristianità, da Isacco di Ninive a Gregorio di Nazianzo, da Evagrio Pontico e Giovanni Climaco e Silesio e su fino a Veronica Giuliani, fino al magistero – pressoché ignoto ai più – dei papi della contemporaneità. Erroneamente – o con nerbate di malizia – il Cardinale, che forse vorrebbe essere direttore di qualche giornale di grido, Iddio gli sta stretto, pensa che non ce ne importi nulla dei fumi mistici cristiani, del Verbo incarnato, ma null’altro desideriamo da un sacerdote ai vertici della Chiesa cattolica. Insomma, il Vangelo, che è il luogo dell’attesa, il testo degli inquieti, dell’amore sovrabbondante e soprannaturale, della rovina e della rapina nella gioia, del contrasto e del contraddittorio, dell’ammissione e dell’ammanettamento in Dio, è sminuito a formula per il quieto vivere, fieno per i ruminanti, manuale per i boy scout (“la ricerca di un significato da assegnare alle opere e ai giorni è sempre ciò che fa desiderare il futuro che ci attende”; “la virtù è luce e calore per la società”; “la meta finale verso cui procedere è una sola: la libertà e dignità di ogni uomo e donna”; “una sferzata contro gli eccessi religiosi, i fanatismi di ogni genere, gli idoli ideologici è, quindi, sempre benefica”) e il divin Cardinale pare l’avatar di uno Scalfari qualunque. Si dirà, leggiti i pii testi esegetici del Cardinale. Li ho letti. Ho sotto mano I Salmi griffati da Ravasi. Stessa ramanzina per colti e per dandy di Dio, manco l’Ultima Cena fosse un cenone organizzato con sfarzo da Jay Gatsby. Sono cattivo? Macché, gli inferi sono un red carpet e Dante ficcava i papi giù nella gola di Ade.

Gianfranco Ravasi, Breviario dei nostri giorni, Mondadori 2018, pp.412, euro 22,00

La carota. Il più sarebbe leggere i Vangeli, non certo liofilizzati a girotondo per i beati mondani, per i rimbambiti del bene, ma come scavo, squarcio, chiodo che t’impone la notte nel cuore, tarlo che ti fa sbandare nel viavai quotidiano, consueto; il più sarebbe leggere a dovere San Paolo, “aborto”, “minimo degli apostoli, neanche degno di venir chiamato apostolo” (1 Cor 15, 8; 9), per capire che in Cristo non si entra come in un museo, con le babbucce universitarie – in Cristo si rovina; il più sarebbe sprofondare nelle Confessioni di Sant’Agostino (citato da Ravasi quanto Seneca, qualche volta in più di Oscar Wilde e di Mark Twain, ma mai quanto William Shakespeare), il primo grande romanzo autobiografico dell’Occidente, nei passi atroci, sintomatici, una stimmate, “e mi portavo dietro l’anima mutilata e sanguinante… non trovavo pace… tutto mi faceva orrore, perfino la luce”, e poi capire che il genio di Dostoevskij deriva da lì, dai guaiti di San Paolo e dalle inquietudini di Sant’Agostino. In questo esercizio d’atletismo biblico, però, in bilico sul niente, scelgo Sergio Quinzio (mai citato da Ravasi) come maestro lunare, capitano della Guardia di Finanza che decide di isolarsi a Isola del Piano, nelle Marche, per meditare i testi sacri, per farsi uncinare dal sacro. Il suo Un commento alla Bibbia è un testo irto e necessario, che insiste sul divario tra Regno e mondo (“Se la Parola fosse mondanamente proponibile e accettabile, se potesse coesistere con il mondo e abitare in esso, il Messia non sarebbe stato rifiutato e crocifisso”), che procede per abissi consecutivi (“La morte di Gesù continua nella morte delle Scritture che lo annunciano trionfante e la consumazione del Libro è la consumazione di tutte le cose. Comprendere Gesù è morire con lui e comprendere le Scritture è morire con loro. Questa è l’unica possibilità di senso rimasta”), senza vaneggiare in dialoghi ed ecumenismi buoni per gli uffici stampa, ma acclamando il tradimento (“Apparati cultuali, sociali, politici ed economici giganteschi, concili e terzi mondi a convegno, ecumenismi, aggiornamenti, rivestimenti e rimasticamenti non sono che battaglie di retroguardia di un esercito irrimediabilmente sconfitto che corre in tutte le direzioni”), finalmente al culmine nell’estremo che è Dio (“Qualunque tentativo di reinterpretazione della Rivelazione in funzione delle esigenze di una certa ‘cultura’, per adattarla e inserirla verosimilmente e plausibilmente in essa come suo elemento, la nega capovolgendola nel momento stesso in cui avrebbe l’intenzione di affermarla”). Soprattutto, Quinzio, dilagando nella Bibbia, non fa il gioco delle citazioni, non ha bisogno degli appalusi del pubblico intellettuale nostrano, non è incline all’inchino. Il suo commento cita soltanto la Bibbia: di quello vive, in quel libro muore, atto d’accusa a chi fa il biblico vergognandosi di ciò che c’è scritto nella Bibbia (d’altronde, bravi figli dei lumi, figli dei fiori razionalisti, mica crediamo nei miracoli, nel mare che si spalanca, nel tipo che tramuta l’acqua in vino, nella resurrezione…). Questa intelligenza, claustrale e senza clamori, finalmente, affascina. Dio non dà altra scelta che obbedirgli, “Dio è adorabile sempre, anche quando non ci salva”.

Sergio Quinzio, Un commento alla Bibbia, Adelphi 1972; 1991

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