Il primo dell’anno ne aveva fatti 89. Faccia da uno che ha preso una granata di pugni ma ne ha dati di più, in quantità, fiero del proprio ribellismo, Piero Sanavio è una leggenda del giornalismo italiano. Classe 1930, a vent’anni va negli Usa a trovare Ezra Pound, trincerato al St. Elizabeths, con l’intento di scrivere una tesi – pionieristica – sulle fonti dei ‘Cantos’. Su Ez firma un libro formidabile, “La gabbia di Pound” (1986; ristampato da Fazi nel 2014), e per tutta la vita racconta gli irrequieti, gli irredenti, da Witold Gombrowicz a Louis-Ferdinand Céline. Era un geniale rompicoglioni, Sanavio. La prima volta l’ho incontrato nell’antro dell’editore Raffaelli, a Rimini. Raffaelli ha pubblicato alcuni grandi libri di Sanavio: “Ezra Pound. Bellum Perenne” (2002), “Louis-Ferdinand Céline. Virtù dell’odio” (2009) e “Ancora su Céline” (2013). Non era felice, Sanavio, abituato a chiacchierare con T. S. Eliot, a telefonare a Ernest Hemingway e a lavorare con Dominique de Roux. Io, invece, ero felicissimo. Lo intervistai, la prima volta, il primo novembre del 2012, su “La Voce di Romagna”, in omaggio a Pound, morto 40 anni prima. Sparai il titolo (“Ode al più grande poeta d’Italia”), Sanavio si mostrò soddisfatto del sottotesto (“Intervista – con retroscena – a Piero Sanavio, l’uomo che ha conosciuto e amato Pound. Gli fu accanto durante la reclusione nel manicomio criminale di Washington”). Cominciammo un dialogo vibrante, fatto di tante interviste, alcune riprodotte in questa pagina in memoria. Contestualmente, iniziò a mandarmi a fottere – era fatto così, accettare o smammare. Se gli parlavo di un libro che mi piaceva – Cormac McCarthy, per dire, mica piccioni qualsiasi – mi bacchettava, “Non è vero che non legge romanzi, legge gli americani del passato. Legge testi con una scrittura divulgativa, industriale, passata per il mangano degli “editors” sicché non si sa cosa e come avesse scritto la persona che figura come autore. Ma ciò che importa, in un libro, è la forma, la coincidenza tra l’idea e la forma – la fabula è soltanto un’offa, un romanzo non è un racconto, è un’ipotesi sul reale. Ce l’ha insegnato Platone”. Secondo lui, per dire, “McCarthy volgarizza Faulkner, quello scadente di The Reevers, The Mansion, e torna indietro”. L’anno scorso, dopo aver letto un articolo – non ricordo quale – che firmai per ‘il Giornale’ mi scrisse, incazzato perché non lo citavo, “la ringrazio di ricordarmi come traduttore-iniziatore in Italia di ‘Walden’: Thoreau, nel dopoguerra, quando nessuno lo voleva, l’ho inventato io… non pretendo certo che legga le mie molteplici introduzioni a Thoreau. Esistono ottime storie della letteratura americana. Sarebbe il caso che ci desse un’occhiata”. Io – con il massimo rispetto che si deve a un maestro – gli rispondevo per le rime. Lui ghignava e godeva. Questa lettera privata, però – era il 27 maggio del 2016 – tra le tante che ci siamo scambiati è quella che mi pare rispecchi meglio Sanavio, sia onore a lui. (d.b.)
10 Gennaio 2019