C’è un’altra scienza ai “primi giorni” della sua esistenza ma che fin d’ora si preannuncia ricca di incredibili potenzialità. È quella delle interfacce neurali.
Dal Dizionario di Medicina della Treccani capiamo di cosa si tratta: “Un’interfaccia cervello-computer dà la possibilità di impiegare un canale di controllo e di comunicazione con dispositivi meccanici ed elettronici che non dipende dai normali canali di uscita di nervi periferici e muscoli. Questo canale è basato sul riconoscimento da parte di un dispositivo di calcolo (usualmente un computer) di variazioni dell’attività cerebrale, indotte sia automaticamente sia volontariamente dal soggetto. Tali variazioni sono registrate con apparecchiature che rilevano correlati dell’attività elettrica massiva dei neuroni (quali l’elettroencefalogramma)”.
È tutto più o meno chiaro? Fate finta di sì, altrimenti salta il nostro articolo!
Ancora dal Dizionario di Medicina della Treccani: “Una interfaccia cervello-computer (BCI, dall’ingl. Brain Computer Interface) dà ai suoi utenti, tipicamente persone ma anche primati non umani, la possibilità di impiegare un canale di controllo e di comunicazione per dispositivi meccanici ed elettronici che non dipende dai normali canali di uscita di nervi periferici e muscoli, secondo quanto descritto (2000) da Jonathan Wolpaw e collaboratori. In altre parole, un sistema BCI permette di comandare un dispositivo elettronico (per es. un computer, oppure un televisore) o elettromeccanico (per es., una sedia a rotelle meccanizzata) mediante la modulazione volontaria dell’attività cerebrale dell’utente, senza che quest’ultimo debba impiegare il suo apparato muscolare volontario”.
In questo ambito, in un orizzonte all’incirca di almeno vent’anni, il futuro ci riserva scenari fantascientifici, come l’invenzione di “protesi” che consentiranno ai ciechi di vedere e che permetteranno di camminare ai lesionati del midollo spinale!
Come ha spiegato Mikhail Lebedev, neuroscienziato della Duke University e super-esperto di BCI, in una chiacchierata con Edd Gent nel suo blog, i processi cognitivi sono ancora a un livello di conoscenza basilare. Per adesso sappiamo che alcune aree del cervello sono più cognitive di altre. Quindi è qui che bisogna collocare gli elettrodi (a contatto diretto con il tessuto nervoso). Ma un giorno, ben più lontano dell’orizzonte ventennale, probabilmente riusciremo a decodificare i nostri pensieri. Puntando a un’interazione tra cervello e intelligenza artificiale che apre scenari immaginati soltanto nei film di fantascienza. Per adesso, il primo passo realistico di questa interazione è con la realtà aumentata, che arricchisce la percezione sensoriale umana mediante informazioni di solito manipolate e convogliate elettronicamente. Per ora gli esempi più noti sono la geolocalizzazione cittadina puntando la telecamera dello smartphone e la chirurgia robotica a distanza. Ma tutto, va detto, è limitato non dallo sviluppo nano-tecnologico ma dalla poca conoscenza che ancora abbiamo dei “codici” del nostro cervello.
Invece l’aspetto trionfale – e forse più difficile da comprendere per l’uomo di oggi – è pensare alle possibilità che possono scaturire da una reale interazione tra computer – o, meglio, tra intelligenza artificiale – e cervello. In sostanza, tra il cervello, che dà continui esempi, e il computer, capace di apprenderli. Per un risultato pazzesco: il cervello “dopato”, in senso positivo, realmente in grado di sfruttare la potenza di calcolo di un dispositivo esterno.
Tutto ciò a quale scopo? Diventare esseri umani migliori, nel senso di più prestanti e intelligenti, con un cervello superperformante, un po’ come una macchina odierna risulterebbe di gran lunga superiore a una macchina degli anni Cinquanta.
E quali “dopature” potrebbero potenziare le nostre facoltà? Be’, in linea generale è possibile aggiungere nuovi sensori su tutti i fronti, “sentendo”, per esempio, i campi elettromagnetici che non possiamo avvertire normalmente (e, di fatto, avremmo un nuovo senso, oltre ai classici cinque: vista, udito, gusto, tatto e olfatto). Oppure è possibile velocizzare le nostre decisioni. Per esempio, immaginate determinate attività che una persona sta portando avanti, con il computer che già conosce la risposta giusta. Lui, semplicemente, invia un impulso soppressivo a determinate parti del cervello per guidarlo a prendere le decisioni corrette.
Se queste sono le prospettive dell’aumento delle potenzialità del cervello, i principali approcci per ottenerlo sono due. Il primo è un dispositivo non invasivo sulla falsariga dell’elettroencefalogramma, con il problema di una limitata qualità dei segnali forniti e interferenze varie. Poi c’è la spettroscopia funzionale nel vicino infrarosso (Functional near infrared spectroscopy, fNIRS), una nuova tecnica non invasiva che utilizza la luce diffusa per indagare le funzioni cerebrali, tecnologia efficace nel rilevare determinate attività, ma con la controindicazione di essere molto lenta.
Se il potenziale di approcci invasivi – figli d’interventi chirurgici necessari per impiantare dispositivi – è agli inizi, quello farmacologico è a buon punto. Difatti sono al vaglio molecole che interagiscono con un recettore del cervello ma non con un altro, con un’area del cervello e non con un’altra. E complessivamente, in linea di principio, possiamo affermare che tutti questi metodi verranno migliorati e diventeranno sempre più mirati verso problematiche particolari.
In via sperimentale è anche possibile modificare le cellule cerebrali in modo genetico, come nell’ottogenetica (cellule sensibili alla luce). Le cellule, inoltre, possono essere sensibili ai campi magnetici. Mediante l’ingegneria genetica si possono realizzare neuroni meccanosensitivi. Ancora si può provare a impiantare nel cervello cellule da un altro organismo. Insomma, tutto quello che era fantascientifico qualche decennio fa oggi è quantomeno ipotizzabile concretamente, anche se soltanto in via sperimentale.
Tutto ciò a quale scopo? Diventare esseri umani migliori, nel senso di più prestanti e intelligenti, con un cervello superperformante, un po’ come una macchina odierna risulterebbe di gran lunga superiore a una macchina degli anni Cinquanta.
Gli scenari che si aprono sono da film di fantascienza con società cupe e sempre più ingiuste, perché si può facilmente immaginare l’utilizzo militare in questa branca della scienza – per dire, di sicuro una qualsiasi interfaccia BMI potrà agire come rilevatore di bugie – oppure i risvolti sociali di questa mente potenziata che acuirebbe il divario tra ricchezza e povertà. Oggi il ricco può avere accesso a studi migliori rispetto al povero, può guidare una supercar e non una utilitaria e può abitare in ville enormi super-accessoriate anziché in una casa popolare oltre ad accedere a cure più costose, ma non è un uomo migliore di un altro per i suoi soldi e non è nemmeno più intelligente. Però, un giorno lontano, forse i soldi permetteranno anche questo, intelligenza aumentata compresa.
In questo senso, Mikhail Lebedev, non è pessimista. Perché, a suo avviso, sì i ricchi accederanno per primi alle potenzialità del cervello aumentato. Ma i sistemi per averlo saranno inevitabilmente non solo molto costosi, ma anche molto ingombranti e funzioneranno male. Poi, come sempre capita, nella storia contemporanea della società capitalistica, la tecnologia sviluppandosi e diffondendosi diventerà anche economica e tutti potranno accedervi. Che poi anche questo sia un bene o un male sarà giudicabile dagli esseri umani del futuro. Oppure ce lo dirà la nostra interfaccia neurale!