Ha promesso di salvare il posto di lavoro di 92 operai della Pernigotti mangiando un loro cioccolatino davanti alle telecamere. Ha garantito entro la fine del 2018 una legge ad hoc per proteggere i grandi marchi italiani, impedendo che siano acquistati da aziende straniere solo per il brevetto per poi venire delocalizzati. Ha assicurato che avrebbe usato il pugno duro contro i proprietari turchi se non avessero accettato di cedere il marchio. Ma il ministro del Lavoro Luigi Di Maio non ha mantenuto nessuna di queste promesse. Almeno per ora. Il compito non è facile perché i proprietari della Pernigotti, i turchi della Toksov che hanno acquistato l’azienda di Novi Ligure nel 2013, non vogliono cedere il marchio. Il 5 febbraio, il giorno in cui quei 92 lavoratori sono stati messi in cassa integrazione, Di Maio non era con loro. Si trovava a a Parigi con Alessandro Di Battista a un incontro con alcuni leader dei gilet gialli per concordare un’alleanza in vista delle europee. «Ci sentiamo presi per il culo dal ministro» , spiega Tiziano Crocco sindacalista Uil che ha seguito dall’inizio la vicenda del fallimento Pernigotti, l’industria fondata nel 1868.
Vi ha dato fastidio la sua assenza?
Sì, sono deluso. Se avesse avuto un incontro istituzionale non avremmo avuto nulla da ridire. Ma ci ha snobbato per incontrare i gilet gialli e accordarsi per prendere voti alle europee. Questo non lo accettiamo, è una presa in giro. Quando ci è venuto a trovare ha detto delle cose meravigliose. Ha promesso una “legge Pernigotti”, si è preso l’applauso, ci ha fatto emozionare. Pensavo di aver trovato qualcuno che ci aiutasse davvero. Gli avevamo chiesto più volte di vederci al Mise prima del 5 febbraio, ma la sua segretaria non mi ha mai risposto, perché? Gli avrei portato due pullman pieni di operai così si sarebbe convinto a far davvero pressione sulla proprietà. Invece è scappato come un coniglio. Più che fare pressione ai turchi ce l’ha fatta salire a noi.
Il Mise però ha garantito almeno per 12 mesi una cassa integrazione diversa dalle altre.
Sì, c’è la causale di reindustrializzazione, con la promessa di riconvertire l’azienda entro un anno. Ma non siamo certi che sarà nel settore enogastronomico. Potremmo pure vendere pellicce alla fine. Io però non avrei fatto passare la cassa integrazione all’azienda, almeno per un altro mese.
Perché?
Dirò una cosa rischiosa, ma avrei detto all’advisor scelto dall’azienda per trovare nuovi acquirenti: «Non hai offerte concrete? Ci vediamo tra un mese». Molti operai avrebbero accettato anche altri 30 giorni senza paga per mettere al Governo più pressione. Perché per avere la cassa integrazione abbiamo dovuto firmare un documento che ci obbliga a liberare l’entrata e l’uscita della fabbrica. Quindi lasciamo campo libero alla proprietà per fare quello che gli pare, anche portare via i macchinari. Come il solo tostino che serve per tutti e tre i rami della Pernigotti: gelato, torrone e praline. E il paradosso è che alcuni degli operai dovranno rientrare in fabbrica tra pochi giorni.
Cioè?
Oggi ci arriverà una lettera con un elenco di 19 o 20 operai che dovranno rientrare in fabbrica per mettere in sicurezza l’impianto. Perché non è un garage che che chiudi e vai via, ci sono macchinari ancora in funzione.
Eppure Di Maio aveva preso una posizione forte con i turchi: «O tengono aperto lo stabilimento o racconterò al mondo che Pernigotti produce per conto terzi»
Più che una presa di posizione è una presa in giro. Mie fonti mi dicono che durante le trattative gli stessi turchi hanno definito Di Maio e Conte “due gattini”. Però il Mise conta fino a un certo punto, il marchio è dei turchi, se non vogliono lasciarlo il Governo non ci può far niente. Però Di Maio avrebbe potuto evitare di sparare così in alto le promesse.
Sono previsti altri incontri?
A metà marzo ci vedremo al Mise per vedere come sta lavorando l’advisor. Lì bisognerà vedere se queste cinque manifestazioni d’interesse che finora sono state sbandierate dal Governo e sono segnate in una lista con scritto: “P1, P2, P3, P4 e P5” si trasformeranno in veri nomi. Per ora c’è solo un vago interesse.
Faccio un appello agli industriali italiani: chi tiene davvero alle aziende e ai marchi italiani si faccia avanti ora, in maniera concreta. È questo il momento per dimostrare il valore della imprenditoria nazionale.
«Chi dice che è già la fine della Pernigotti, secondo me si sta facendo strumentalizzare politicamente, speculando sulla pelle dei lavoratori. Perché gli operai hanno oggi una tutela che non esisteva, la cassa integrazione che abbiamo introdotto con la legge 109/2018. Senza quella i 92 lavoratori sarebbero stati licenziati dall’azienda tre mesi fa», risponde Giorgio Sorial, vice capo di gabinetto del ministro del Lavoro Luigi Di Maio, contattato da Linkiesta. «E infatti molti di loro ci hanno personalmente ringraziato per il lavoro svolto dal Mise finora. Ci vuole tempo per reindustrializzare l’azienda. Serve che si facciano avanti gruppi industriali concretamente in grado di dare un futuro alla produzione, riassorbendo i lavoratori e gestendo un’azienda che nel 2013 è stata venduta ai Turchi e che ha perso decine di milioni di euro negli ultimi anni. È un processo lungo, che richiede serietà da parte di tutti. Non si conclude in uno o due mesi e sopratutto non lo si può fare se vi sono continui intralci da parte di chi usa questo terreno per giocarsi una propria personale partita politica, volendo già chiudere definitivamente il sito di Novi Ligure. Ora siamo all’inizio di un percorso che durerà un anno» prosegue Sorial.
«Grazie all’ammortizzatore sociale l’advisor scelto dall’azienda dolciaria avrà tempo per valutare le varie possibilità di reindustrializzazione e avviare le trattative con le aziende interessate a proseguire la produzione. Faccio un appello agli industriali italiani: chi tiene davvero alle aziende e ai marchi italiani si faccia avanti ora, in maniera concreta. È questo il momento per dimostrare il valore della imprenditoria nazionale. A oggi all’advisor sono arrivati gli interessamenti di 21 aziende. Quattro di queste sono proposte molto interessanti e una è in già in fase negoziale. Non esiste ancora una pistola carica da puntare per togliere con la forza il marchio alla proprietà turca, nonostante queste cose accadano da decenni. Ma per questo stiamo scrivendo una legge che leghi il marchio con il territorio e definisca le azioni da intraprendere in questi casi. Sarà una proposta strutturale e inattaccabile».