C’è stato un libro che ha cambiato il nostro modo di concepire la Terra e le sue risorse. Si chiama Limits to Growth e fu il primo testo a mostrare con dati alla mano le conseguenze della crescita incontrollata e dell’impatto dell’uomo sull’ecosistema. Da quando è stato pubblicato, nel 1972, la sua autrice principale, Donella Meadows, è diventata il simbolo della sostenibilità ambientale. Diciotto anni dopo la sua morte, avvenuta nel 2001, esce in Italia “Pensare per sistemi” (Guerini Next) con l’obiettivo di spiegare cos’è il pensiero sistemico e come può orientare il futuro verso uno sviluppo sostenibile. Per capire meglio il meccanismo abbiamo intervistato Marta Ceroni, biologa dottorata in ecologia che vive da oltre 22 anni negli Stati Uniti. Ex onsulente del United Nations Environmental Program, già direttrice del Donella Meadows Institute del Vermont, oggi dirige la programmazione per l’Academy for Systems Change, un’organizzazione nonprofit dedita a diffondere il pensiero sistemico e la sostenibilità ambientale. «Non bisogna cercare fattori esterni per capire i problemi del nostro sistema industriale, gli errori sono interni. Il punto è che li consideriamo naturali e ripetiamo senza volerlo gli errori. Dobbiamo districarci nella complessità, farcela amica. Solo così possiamo conoscere il modello e avere il coraggio di cambiarlo dall’interno».
E allora Ceroni analizziamo dall’interno il nostro modello. Cosa c’è che non va in questo sistema di sviluppo?
Prima di tutto come concepiamo la natura. Già il termine “risorse naturali” è sbagliato. È un modo materialistico di vedere l’ambiente intorno a noi, come qualcosa destinato allo sfruttamento. Dobbiamo cambiare la prospettiva.
Come?
Prima di tutto facendo la differenza tra economia ambientale ed economia ecologica. L’economia ambientale si occupa di risolvere a poco a poco le storture del sistema cercando dove possibile di trovare soluzioni per ridurre l’impatto ambientale negativo dell’uomo. Mentre l’economia ecologica è un vero cambio di paradigma.
E in quale paradigma viviamo in questo momento?
Se l’obiettivo è quello di crescere, crescere, crescere in nome del Pil, tutte le decisioni politiche, collettive e individuali saranno prese automaticamente a discapito di quello che realmente serve agli individui. Per fortuna non tutti credono che il Pil debba essere l’unico modo per valutare la bontà di una società. Ci sono molte alternative da cui partire per cambiare il sistema.
Facciamo qualche esempio.
Per esempio il Canadian index of wellbeing, realizzato con le comunità locali che si basa su otto parametri tra cui la salute, ambiente sostenibile, popolazione istruita e alti livelli di partecipazione democratica. Oppure il Gross national happiness (Felicità interna lorda) usato in Buthan che sposta l’importanza del benessere della società sulle necessità degli abitanti di un Paese e non un gruppo di economisti rinchiusi tra quattro mura a Washington o Roma. Ma quello che preferisco è il Genuine progress indicator che tra i parametri per giudicare il valore di un sistema ha la misurazione dell’ineguaglianza. Più è alta la diseguaglianza, più basso è il progresso. Il Vermont dove ho vissuto e lavorato per molto tempo è il primo Stato Usa ad aver introdotto questa nuova metrica nel 2012 per calcolare il successo di un sistema economico.
Non è l’unica innovazione ambientale realizzata dal Vermont.
Qui c’è una realtà particolare. Il 78% di questo Stato è ricoperto da foreste. È normale che qui si abbia una sensibilità diversa sull’ambiente. Storicamente c’è un approccio collettivo nella risoluzione dei problemi dovuto a una tradizione consolidata di democrazia diretta. Qui non si vota solo per eleggere i rappresentanti ma si può votare su molti temi proposti dai cittadini. Anche grazie alla presenza del Vermont Progressive Party nella maggioranza si sono adottare politiche che riflettono il pensiero sistemico.
Facciamo degli esempi concreti.
Per esempio il piano decennale per rilocalizzare il cibo e renderlo accessibile a tutti. Una rete di impatto collettivo che ha coinvolto gli operatori agricoli, le catene di distribuzione, le scuole, gli investitori e le fondazioni. Ma anche un piano preciso di riduzione delle emissioni tramite l’uso di energie rinnovabili, risparmio energetico, veicoli elettrici, e, in futuro, una tassa sul carbonio.
Anche per questo Meadows decise di realizzare qui il suo ecovillaggio
Sì, si chiama Cobb Hill. Le case sono state costruite usando principi di bioedilizia per massimizzare l’acqua calda e l’energia solare passiva con un’unica azienda agricola che rifornisce tutti gli abitanti. Meadows voleva ricreare un microcosmo di come avrebbe dovuto essere il pianeta: sostenibile. Le faccio un esempio su tutti: il numero di mucche che pascolano è sempre lo stesso proprio perché non si può basare il proprio modello economico sull’idea che le risorse sono infinite.
Il rischio però è che chi ci legge pensi all’ennesimo caso di decrescita felice: un villaggio fuori dal tempo, irrealizzabile oggi su larga scala.
L’ecovillaggio della Meadows non deve essere un modello replicabile in toto da tutti nel mondo. Vuole essere un esempio di come si possa impostare un nuovo tipo di sistema a livello locale.
“L’escalation negli stili di vita responsabili verso l’ambiente può portare ad un puritanesimo rigido e inutile” diceva Meadows.
È vero. Per esempio il nostro approccio alla conservazione delle aree protette spesso ha portato ad allontanare forzatamente le popolazioni locali. È un modello sbagliato, figlio di un sistema che concepisce la natura come un museo arido da conservare e non come il centro vitale di una comunità rispettosa dell’ambiente. Ma non mi piace neanche la rigidità di un ambientalismo di vecchio stampo che è contro qualcosa ma è poco propositivo. Questo allontana le persone. Bisognerebbe dirlo per esempio a chi protesta contro la Tap.
Fanno male?
Tutt’altro. Io stessa sono un’attivista contro i gasdotti. Se gli abitanti di San Foca non vogliono il gasdotto non possono limitarsi a dire “Non costruite qui la Tap”. Per mobilitare le persone e convincere l’opinione pubblica dovranno proporre una visione appassionante e soprattutto proporre un’alternativa sostenibile. Va bene la denuncia contro le forze del sistema che degradano l’ambiente, ma serve anche una proposta di un nuovo modello che mobiliti le forze creative di una comunita.
Né io né voi vogliamo plastica ma la società ci impone di usarlo perché sembra normale farlo. E la plastica continua a inquinare i nostri oceani. Non bisogna cercare fattori esterni per capire i problemi del nostro sistema, gli errori sono interni e dobbiamo avere il coraggio e la saggezza di cambiarli radicalmente
Più o meno quello che sta facendo la giovane Greta Thunberg: sciopero, denuncia e proposte. Potrà questa quindicenne cambiare da sola il paradigma?
C’è bisogno del contributo di tutti: dagli “agitatori” che mettono in luce la realtà, come sta facendo Greta, agli “orchestratori” fondamentali per unire le reti e realizzare quelle buone pratiche. Ma c’è bisogno anche degli innovatori in grado di pensare un’idea che può rivoluzionare il sistema. Sono fiduciosa nelle nuove generazioni.
Vede qualche nuovo leader che può incarnare il cambiamento?
No. Siamo abituati a vedere il leader come una figura carismatica, decisa. Un innovatore che sa cosa dire e come dirigere le persone. Ma per cambiare il sistema ci vuole un nuovo concetto di leadership legato alla collettività, in cui non si ricordi più chi ha avuto l’idea innovativa, non si agisce da soli. Persone che non ispirano perché sono carismatiche ma creano un bel modo di stare insieme.
Una rivoluzione dal basso.
Dall’alto, dal basso, dal centro. Deve avvenire tutto insieme: azioni individuali, fare rete, influenzare il governo le decisioni dei politici. Abbiamo poco tempo per processi graduali. L’importante è che sia fatto adesso.
La situazione è irrimediabile?
Donella era ottimista, aveva un adesivo attaccato al suo Pc: “Se il mondo finisse domani pianterei lo stesso un albero”. Il suo ex marito Dennis è pessimista e sostiene che, avendo oltrepassato molti dei limiti fisici del pianeta, non ha piu’ senso parlare di uno sviluppo sostenibile ma che si debba parlare di uno sviluppo che ci permetta di sopravvivere. Io penso che si possa fare ancora molto e applicare forme di resistenza al cambiamento climatico.
Donald Trump non è della stessa idea.
Lui è l’esempio concreto di come il cambiamento di sistema possa non essere sempre positivo. La sua amministrazione sta cercando di distruggere tutte le politiche ambientali implementate dal suo predecessore, Barack Obama. Dal congelare la richiesta di requisiti di efficienza del carburante per le auto e i camion fino al 2026. All’abbandono della richiesta di soglie e depuratori per ridurre le emissioni delle centrali a carbone. Ha messo addirittura a capo dell’agenzia federale per l’ambiente una persona che ha dichiarato di volerla smantellare.
In molti però la pensano come Trump. sono a favore di questo sistema e non credono al cambiamento climatico. Perché secondo lei?
Perché la comunicazione sui rischi del cambiamento climatico è sbagliata. Non basta far vedere lo scioglimento di un ghiacciaio, le immagini terribili fanno presa solo su chi è già interessato al tema. Meadows diceva “la società che guarda solo ai dati è una società che si perde”. Il punto è che gli scienziati non devono essere solo delle figure neutre che producono i dati, ma veri agenti del cambiamento e mostrare le storture del sistema. Come state facendo anche voi in questo momento.
Si metta nei panni di chi ci legge. Vorrebbe risolvere il problema del cambiamento climatico ma non sa come fare.
Il problema è proprio questo: siamo finiti in un cul-de-sac. Né io né voi vogliamo plastica ma la società ci impone di usarlo perché sembra normale farlo. E la plastica continua a inquinare i nostri oceani. Non bisogna cercare fattori esterni per capire i problemi del nostro sistema, gli errori sono interni e dobbiamo avere il coraggio e la saggezza di cambiarli radicalmente.Meadows ha sempre combattuto per un approccio intuitivo che non cerchi facili soluzioni ma punti a capire l’origine del sistema e quali sono gli obiettivi per cui è nato e si riproduce. Per questo consiglio di leggere “Pensare per sistemi”: è un orientamento magnifico per capire come cambiare il mondo, districarsi nella complessità e farsela amica. Siamo abituati a pensare che la complessità sia un deterrente per decisioni radicali e innovative. I sistemi non si controllano ma si può imparare a ballare con loro.