In effetti, siamo un Paese inospitale agli eroi e che tratta a male parole i propri grandi. Al netto dei gusti personali e della propria palestra letteraria (dettagli irrilevanti), per dire, m’immagino cosa sarebbe di Gabriele d’Annunzio se fosse accaduto in Usa, in UK, nell’avida Francia. Lo avrebbero accudito, coccolato con musei e mausolei, accolto come un immortale. Basta pensare alla retorica in cui intingono le imprese di Lord Byron, i vagabondaggi di Walt Whitman, le smargiassate poematiche di Victor Hugo. Cito solo autori dell’Ottocento, perché nel secolo scorso nessuno ha fatto ciò che ha fatto d’Annunzio, che ha crogiolato la propria istrionica individualità non solo nell’alcova letteraria ma anche nell’azione, nella presenza. Omerico, uomo fuori dal tempo perché autore del proprio tempo, d’Annunzio ha forgiato la storia dell’arte e ha cambiato la Storia, ha fatto e disfatto, ha impalcato i miti di cui ha abusato il Fascismo e sfotteva il Duce, è stato rivoluzionario e carismatico, capopopolo e icona di se stesso, animatore di folle e esegeta del proprio ego. «Ho sempre vissuto contro tutto e contro tutti, affermando e confermando ed esaltando me medesimo… ho giocato col destino, ho giocato con gli eventi, con le sorti, con le sfingi e con le chimere», scrive nel suo Libro segreto, al termine della parabola, nel 1935. Esteta in guerra, ideatore di slogan e di simboli corroboranti – durante la Grande guerra, il fatidico volo su Vienna e la “Beffa di Buccari” – il fato di Gabriele d’Annunzio è all’apice un secolo fa, nel 1919, con la presa di Fiume, laboratorio artistico (chiedere a Giovanni Comisso) e politico (l’eccellente “Carta del Carnaro”) e sessuale e sociale, preludio ai beat e al Sessantotto, ululato delle minoranze, riassunto di ogni contraddizione, l’epica dell’istante e dell’irripetibile. Insomma: un poeta che preda una città, un artista avventuriero e visionario che si erge a guida di una nuova ipotesi di civiltà. Chi non sente l’elettrificazione dell’epica, in quel ciclo di albe che hanno annullato le distanze tra antica Grecia e romanzo di fantascienza? Sui “Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920” lo studio più dettagliato, autorevole – ma che ha fibra narrativa – non poteva essere che quello di Giordano Bruno Guerri: quasi 600 pagine stampate da Mondadori con un titolo eccellente, Disobbedisco. Storico che ama riabilitare gli irriverenti e i vinti (ha scritto di Giuseppe Bottai e di Galeazzo Ciano, di Curzio Malaparte e di Italo Balbo, di Ernesto Buonaiuti e di Filippo Tommaso Marinetti), presidente e direttore generale della Fondazione Vittoriale degli Italiani, l’ho chiamato al dialogo.
Fiume: ai suoi occhi l’Impresa è stata l’alcova del Sessantotto e di alcuni temi del tempo presente, ha anticipato “la spettacolarizzazione della politica, la distorsione della realtà tramite la propaganda, la ribellione generazionale, l’avanguardia e la festa come mezzi di contestazione, la rivolta contro la finanza internazionale, il conflitto tra nazionalismi, i volontari che lasciano i paesi d’origine per combattere guerre globali, la libertà sessuale e di abbigliamento, il ribellismo e la trasgressione”. Di per sé è l’ultima utopia del poeta che guida un esercito, un regno. Quali valori estetici e culturali preparano questa Impresa, danno impeto al non più giovane D’Annunzio?
Per capire il comandante di Fiume bisogna capire d’Annunzio, che è stato un irrequieto rivoluzionario in ogni stagione della sua vita. Da giovane scrittore, ha scosso l’Italia mettendola di fronte alle sue contraddizioni. I suoi romanzi e i suoi drammi sono veri studi antropologici che indagano ogni volto della società del tempo, dai vertici alle radici contadine. A Roma, a Napoli, a Firenze, a Parigi ha lasciato traccia di sé tra gli spiriti più geniali e inquieti dell’epoca. Quando scoppia la Prima guerra mondiale, d’Annunzio s’innamora di quel cataclisma, non solo per patriottismo. Nel grande conflitto vede, come molti altri intellettuali del tempo, l’inizio di una rivoluzione. Fin dai suoi primi discorsi interventisti si rivolge ai giovani, invitandoli a rinnovare la Nazione e la società. Durante la guerra s’impegna in prima linea per motivare i cittadini in armi. Per il ‘poeta soldato’ e per molti giovani rivoluzionari, la guerra contro l’Impero asburgico rappresenta soprattutto l’opportunità di plasmare la società del futuro. Ma al termine della guerra è chiaro – e a d’Annunzio più di tutti – che quelle aspettative sono state disilluse e che il mondo non è affatto cambiato. Migliaia di giovanissimi che avevano conosciuto la violenza e l’avventura, tornarono a casa gonfi di rabbia contro quel sistema che li aveva gettati in trincea e che li riportava a una normalità cui non erano più abituati, governata da una politica distante e estranea, che non capivano e non li capiva. La questione della “Vittoria mutilata”, della mancata annessione di Fiume e della Dalmazia erano certo questioni vitali per il poeta, da sempre tenace sostenitore di una “Grande Italia”. Ma nella mobilitazione irredentista, d’Annunzio vede soprattutto l’inquietudine di un’intera generazione tradita dalle istituzioni. Per questo, prendendo la guida della ribellione fiumana, fin da subito la presenterà come una rivolta generazionale contro l’ordine costituito. Sognerà una rivolta di tutti gli oppressi della terra, scriverà una costituzione rivoluzionaria e vivrà per cinquecento giorni circondato da giovani, lui quasi sessantenne. È qui, a mio parere, la radice psicologica e morale del d’Annunzio fiumano: quella di un rivoluzionario che, come tutti i vecchi rivoluzionari, cerca una seconda giovinezza, e la trova in una generazione che sembra perduta. In cambio, le trasmetterà il suo immaginario sconfinato e la sua irrequietezza visionaria. Uno scambio che purtroppo molti non capirono, o travisarono, o plagiarono. Come il fascismo, che sfruttò quella generazione e le visioni dannunziane, trasformandoli in strumenti della politica totalitaria.