EcomafieItalia contaminata: ecco perché la salute di 7 milioni di cittadini è in pericolo

Il dossier ambientale è certamente un campanello di allarme che non può essere ignorato, in particolare per la sua profonda interconnessione con la salute degli abitanti delle zone limitrofe alle aree contaminate. In aggiunta a sprechi, investimenti sbagliati e infiltrazioni mafiose

L’Italia tossica, quella delle aree inquinate, è tornata a pungere (anche se realmente non se n’è mai andata). A qualche anno dalla ricerca messa in piedi da Andrea Minutolo e Marco Mancini di Legambiente sui Sin (siti di interesse nazionale) e le aree contaminate, pertanto, si può assurgere che la situazione non è poi così cambiata. Secondo l’European Environment Agency, i siti contaminati identificati in Europa sono 342 000 e solo il 15% sono stati bonificati. L’Italia dal canto suo ne conta circa 12 mila, dei quali 57 sono Siti di interesse Nazionale, ovvero contenenti alti livelli di inquinamento. Legalmente, sotto il governo Monti, le competenze per la bonifica di questi siti sono state divise: 39 al Ministero dell’ambiente e 18 alle Regioni.

Per capirci: il totale dei siti contaminati è quello ufficiale ma non reale, in quanto il monitoraggio a maglie larghe di alcune regioni non permette la copertura di tutto il territorio, senza contare che la frammentazione di responsabilità ha creato un’impasse alimentato a suon di milioni – solo per consulenze e pareri – che affonda le radici nel lontano 1998, l’anno delle prime previsioni di bonifica.

Ma partiamo dalle origini. Precisamente dall’impatto ambientale e dagli effetti che i Sin hanno sulla salute della popolazione. Gela, Orbetello, Piombino, Venezia, Crotone, sono solo alcune delle 57 bombe ecologiche che stanno appestando il Paese. Contaminazione di suolo o di falde acquifere, emissioni di polveri e presenza massiccia di amianto sono le inflitrazioni più comuni per quelli che possono essere ex polverifici dismessi, impianti chimici o siderurgici, discariche o inceneritori.

In casi come quello di Orbetello, dove l’ex-Sitoco (impianto chimico) si staglia tra la laguna e la ferrovia, oltre alla compromissione del suolo, c’è stata anche quella della falda, o per meglio dire della laguna (la cui eco-diversità in questi ultimi anni – per un gioco di coincidenze! – è stata fortemente compromessa).

Il dossier ambientale è certamente un campanello di allarme che non può essere più ignorato, in particolare per la sua profonda interconnessione con la salute degli abitanti delle zone limitrofe ai Sin

Il dossier ambientale è certamente un campanello di allarme che non può essere più ignorato, in particolare per la sua profonda interconnessione con la salute degli abitanti delle zone limitrofe ai Sin. Grazie ad alcuni documenti pervenuti a Linkiesta e ai S.e.n.t.i.e.r.i, i rapporti stilati con cadenza alterne dall’Istituto superiore di Sanità, il Ministero della Salute e l’Università Sapienza, sono emersi dati preoccupanti sulla correlazione (difficilmente spuria) tra la vicinanza alle aree contaminate e un alto tasso di Ear (esiti avversi riproduttivi) e di nascite con malformazioni genetiche.

Incrociando il report di Legambiente con il monitoraggio dell’istituto Superiore di Sanità si registra, infatti, su un bacino di circa 7 milioni di italiani che vive in zone a rischio, un aumento del 9% di tumori maligni e una prospettiva di vita inferiore alla media, con un tasso di mortalità più alto del 5%. Nei singoli casi, dagli esami osservati sul sito di Gela e stilati nel rapporto sul rischio riproduttivo in aree contaminate, è emerso un eccesso di nati con cardiopatie congenite. Oppure: nell’ospedale di Orbetello il rischio è quello del Bsp (basso peso alla nascita) o Small for Gestional Age. Mentre in provincia di Foggia, nelle zona della discarica Pariti II di Manfredonia, le nascite con malformazioni congenite al cuore, all’apparato digerente e urinario sono un monito allarmante.

Ma non finisce qui. Sempre Legambiente afferma: “i risultati sulle conseguenze epidemiologiche dell’esposizione all’inquinamento prodotto da fonti industriali ben individuabili emergono con forza. Si va dall’eccesso di tumori della pleura nei SIN che hanno a che fare esclusivamente con l’amianto (Balangero, Casale Monferrato, Broni, Bari-Fibronit e Biancavilla, con il suo problema specifico di fibre asbestiformi) o dove l’amianto è uno degli inquinanti presenti (Pitelli, Massa Carrara, Priolo e Litorale Vesuviano) agli incrementi di mortalità per tumore o più in generale per malattie legate all’apparato respiratorio a causa delle emissioni in atmosfera degli impianti petroliferi, petrolchimici, siderurgici e metallurgici (Gela, Porto Torres, Taranto e nel Sulcis in Sardegna)”.

Insomma, il problema è grave e la “melina” con cui gli attori, sia pubblici che privati, stanno evitando la risoluzione finale, non può far altro che intensificarlo.

Insomma, il problema è grave e la “melina” con cui gli attori, sia pubblici che privati, stanno evitando la risoluzione finale, non può far altro che intensificarlo. Perché se il danno ormai è stato fatto, è anche vero che si sta facendo poco per rimediare, spendendo comunque tanto. Invalidato il principio “chi inquina paga”, con la maggior parte dei procedimenti giudiziari bloccati sul nascere per la non rintracciabilità dei responsabili, lo Stato ha dovuto farsi carico dei costi delle bonifiche – prima di scaricare parte dell’onere alle Regioni – per un valore secondo le stime che si aggira sui 3,6 miliardi dal 2001 al 2012, che si vanno però a sovrapporre, secondo Lanfranco Polverino, ex responsabile Ambiente Filctem nazionale, con i circa 2 miliardi spalmati negli ultimi dieci anni. Spesa difficilmente tracciabile e calcolabile a livello nazionle. Una spesa che potrebbe essere invertita in guadagni: Confindustria sottolinea come un sblocco delle opere porterebbe in 5 anni 200 mila posti di lavoro, per un giro di affari di oltre 20 miliardi. Ma tutto tace, e resta lì come ricordo di un spasmodico ma mal calibrato momento di prosperità industriale. I siti che hanno concluso le operazioni al 100%, infatti, sono 0 su 57. Fermi al palo, o poco più (come dimostra l’88% dello stato conclusivo delle aree industriali della Val Basento in Basilicata).

Sotto un certo punto di vista, però, siamo i primi della classe. Come noi infatti non spende nessuno, salvo la vicina Svizzera. I costi per le indagini sul sito sono generalmente compresi nell’intervallo 5 000-50 000 euro, l’Italia si trova sopra i 5 milioni. Previsioni, progetti, valutazioni, consulenze, ma di bonifiche poche. Investimenti la cui entità è viziata però anche dalla major Eni. Il Gruppo Idrocarburi nato con Mattei, ha impiegato nella sua lunga storia non pochi fondi per la creazione EniChem, divenuta successivamente una bad company, con la quale per una serie di accordi si trovò a controllare Federconsorzi e la Montedison, che a sua volta aveva assorbito sia la Montecatini che la Sicedison.

Basta avere un minimo di contesto e di conoscenza dell’operato di queste ex società, che si arriva a capire il perché Eni abbia successivamente istituito la controllata Syndial, society che opera nel campo del risanamento ambientale di siti petrolchimici e minerari dismessi. I siti contaminati da precedenti attività produttive andavano risanati, compreso lo stabilimento di Gela, ma tra virtuose promesse e stato dei fatti, a circa 16 anni dalla nascita di Syndial, a che punto si troveranno i lavori della società più facoltosa del nostro paese?

La risposta è in queste poche righe della Commissione parlamentare d’inchiesta: “La Syndial è in forte ritardo nell’attività di bonifica dei siti inquinati e il Ministero stenta a esercitare i poteri sostitutivi di azione in danno (…). Le numerose riunioni tecniche e i sopralluoghi degli enti di controllo nazionali e locali, effettuati su richiesta del Ministero, sembrano non avere altro effetto che quello di fornire alla Syndial un giustificativo per dilazionare i tempi di intervento”.

Lassismo istituzionale e mancata supervisione europea innescano un processo tanto pericoloso quanto scontato, ovvero quello delle infiltrazioni mafiose

Guardando il bicchiere mezzo pieno e con la leggerezza di poter dire “la colpa non è tutta nostra”, tutt’oggi, bisogna ammettere, non si è ancora pervenuti a una direttiva europea sul suolo. Il che porta a una seconda considerazione: lassismo istituzionale e mancata supervisione europea innescano un processo tanto pericoloso quanto scontato, ovvero quello delle infiltrazioni mafiose. Non a caso dal 2002 il numero di indagini aperte su smaltimenti illegali di rifiuti derivanti dalla bonifica di Sin sono 19, con 150 ordinanze di custodia cautelare, 550 persone interessate e 105 aziende coinvolte. Due casi su tutti, nel tempo, hanno lasciato il segno.

A Orbetello, ai piedi della Maremma, Laguna azzurra srl prese la “briga” della bonifica, suscitando non poche perplessità. La società si scoprì in seguito esser proprietà delle coop rosse e del gruppo Marano, tra cui Salvatore, ex senatore di Forza Italia, e i fratelli Francesco e Stefano (quest’ultimo indagato e poi prosciolto anni prima per i suoi rapporti con il clan Di Lauro). La ex Sitoco (Montecatini) aveva prodotto concimi chimici trasformando con gli acidi la pirite delle miniere dell’Argentario, mentre la società puntava a costruire villette e appartamenti per massimizzare l’utile. Ai vertici del comune di Orbetello c’erano l’ex ministro Altero Matteoli e Rolando Di Vincenzo. L’accordo sembrava fatto, ovviamente, prima del caos che seguì gli arresti domiciliari per l’ex senatore di Forza Italia Marano. Situazione attuale: una bomba ecologica che rilascia veleni nel territorio lagunare.

Storia analoga al Nord, dove la Camorra per anni ha gestito il monopolio del disinquinamento.La società Eco Art costituita a Cesano Maderno (Monza) nel settembre 2012 dall’imprenditore Pasquale Pirolo, per gli inquirenti legato proprio al clan dei “casalesi”, da Antonio Bardellino alla “famiglia” Schiavone, che intendeva sfruttare sofisticate tecnologie di disinquinamento, sperimentate di recente dall’università di Modena”.

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