Perché la produttività è il vero male dell’economia italiana (e no, l’Euro non c’entra nulla)

L'ebook "Il malessere dell’economia italiana: una diagnosi in 47 grafici” mostra i dati implacabili: nella manifattura ad alta tecnologia dal 1992 al 2017 la produzione è diminuita del 5 percento in Italia, mentre è aumentata dell’84 percento in Francia e del 164 percento in Germania"

Ci avviciniamo alle elezioni europee e c’è una frustrazione diffusa: il dibattito economico in Italia è troppo disconnesso dai fatti. I pericoli di questa tendenza sono molteplici. Dal crescente supporto per politiche in realtà inefficaci, se non addirittura controproducenti, a quello identificato da Hanna Arendt: il suddito ideale del regime totalitario è l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più. Il fact-checking è tra i migliori rimedi per la confusione fra realtà e finzione. In un nuovo ebook, dal titolo “Il malessere dell’economia italiana: una diagnosi in 47 grafici” guidiamo il lettore attraverso una selezione dei principali indicatori economici dagli anni ’80 a oggi, sempre ponendoli a confronto con quelli degli altri principali paesi occidentali. L’obiettivo è cercare di capire i fattori di debolezza strutturale del sistema economico italiano e dove abbiamo perso terreno nel corso degli ultimi anni.

Basta lasciar parlare i dati per confutare alcune narrazioni molto popolari. Le statistiche sulla spesa pubblica in Italia, cresciuta del 45 percento circa in termini reali e pro capite negli ultimi vent’anni, difficilmente si riconciliano con le tesi che spiegano la stagnazione economica con un presunto eccesso di austerità nella spesa pubblica. Anche l’euro c’entra ben poco con il malessere economico italiano. Secondo alcuni, la pistola fumante che dimostrerebbe la colpevolezza della moneta unica sarebbe il deterioramento della bilancia commerciale italiana iniziato con la sua introduzione. Peccato che, una volta tolte le importazioni energetiche dal conto, sparisca ogni segno di deterioramento. I prezzi di petrolio e gas, più che triplicati dal 1997 al 2008, sono determinati nei mercati internazionali e poco hanno a che vedere con la nostra competitività. Insomma, solo una coincidenza.

I dati sulla produzione industriale mostrati nel libro indicano invece la vera differenza rispetto a Germania e Francia: mentre nelle produzioni a basso valore aggiunto le loro industrie hanno sofferto come la nostra, ci hanno surclassato in quelle a più alto contenuto tecnologico. Nella manifattura ad alta tecnologia, dal 1992 al 2017 la produzione è diminuita del 5 percento in Italia, mentre è aumentata dell’84 percento in Francia e del 164 percento in Germania. Il fatto che l’Italia sia agli ultimi posti nelle classifiche sui livelli di istruzione, specialmente universitaria, è il vero ostacolo alla competitività della nostra manifattura in un’economia mondiale dove i paesi più avanzati devono specializzarsi nelle produzioni più sofisticate e innovative.

Nella manifattura ad alta tecnologia, dal 1992 al 2017 la produzione è diminuita del 5 percento in Italia, mentre è aumentata dell’84 percento in Francia e del 164 percento in Germania.

La stagnazione italiana è evidente soprattutto quando si guarda all’evoluzione della produttività, intesa come il prodotto per ciascuna ora lavorata. In Italia la produttività è ferma dall’inizio degli anni 2000. Una produttività bassa contribuisce a tenere alto il numero delle ore lavorate e basse le retribuzioni. I dati mostrano che le economie occidentali tendono a dividersi in due gruppi, quello dei paesi in cui si lavora meno ma efficientemente (vedi la Francia), e quello dei paesi in cui invece di lavora di più e inefficientemente (vedi il Giappone). Il valore aggiunto della manifattura in Francia è leggermente inferiore a quello dell’Italia, con 232 miliardi contro 257 miliardi di euro nel 2017 secondo Eurostat, ed impiega 2,58 milioni di persone contro i 3,87 milioni in Italia. La più alta produttività – valore aggiunto per lavoratore – si traduce in una retribuzione oraria del 20 percento più alta in Francia a parità di potere d’acquisto nelle imprese con più di 10 dipendenti (dati 2014, LFS-Eurostat). Una ripresa della crescita della produttività non dovrebbe essere al centro dell’attenzione solamente delle imprese ma anche dei lavoratori.

Spostandoci al altro tema che porta molti a criticare l’Europa, quello della politica fiscale, sono due gli elementi da mettere in evidenza. Il primo è che la lunga serie di avanzi primari registrati dall’Italia dal 1992 ad oggi non sono stati imposti da Bruxelles, quanto della semplice obbligazione a onorare i propri debiti. A differenza di altri paesi, l’Italia partiva già con un debito pubblico molto elevato al momento della sigla del trattato di Maastricht nel 1992. Mentre durante gli anni ’80 gli altri paesi europei stavano attenti a tenere i conti in ordine, in Italia il disavanzo primario è stato superiore al 2 percento e spesso intorno al 3 percento. In combinazione con una crescente spesa per interessi, che raggiunse il picco del 12,3 percento del PIL nel 1993, e un rallentamento cronico dell’economia, il debito pubblico esplose. La seconda osservazione riguarda le modalità con cui vengono spesi i soldi pubblici. Negli ultimi anni, il rapporto spesa pubblica su PIL è infatti diminuito soltanto marginalmente durante l’ultima recessione, con il risultato che gli avanzi primari dal 2011 in poi sono stati resi possibili soprattutto da un aumento della pressione fiscale. Le categorie di spesa che hanno risentito maggiormente dei tagli sono state istruzione e investimenti pubblici.

Tra le debolezze strutturali del nostro paese abbiamo, per esempio, una bassa occupazione, soprattutto femminile. La bassissima occupazione femminile sembra essere divenuta oramai un assunto, tanto è il vuoto di iniziative da parte di parlamentari di ciascuno schieramento per colmare questo enorme ritardo. Altri elementi strutturali di debolezza sono la bassissima percentuale di persone in età lavorativa con una laurea e l’inefficienza del nostro sistema giudiziario: in Italia un processo civile impiega circa 1200 giorni in media per superare l’ultimo grado di giudizio, in Giappone meno di 200.

Nell’ebook, scaricabile gratuitamente da italiadati.com, troverete questi e molti altri dati. Abbiamo lasciato intenzionalmente più spazio ai grafici che alle parole. Scrivere questo libro ci ha aiutato a capire meglio quali delle tesi presenti nel dibattito economico italiano siano credibili e quali no. Speriamo che possa essere di aiuto anche a voi, soprattutto in vista delle elezioni europee.

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