Conosciamo da tempo le varie forme di « selfie » telefonico. C’è il selfie del turista, per fare sapere agli amici dove si è stati, il selfie d’amore, per condividere un momento a due, il selfie sociale, per diffondere la propria immagine e la propria affermazione pubblica. C’è il selfie politico, di cui il grande specialista è il nostro ministro degli Interni, per amplificare il proprio messaggiofra gli elettori. La pratica del selfie è un evidente riflesso narcisistico che, in qualche caso, ha portato a smascherare amanti, truffatori, persino criminali latitanti che si erano dimenticati dell’immanente potenza del web. In molti casi, il selfie si trasforma in arma di ricatto o di bullismo, quando cioè la minaccia di diffondere le immagini è finalizzata a un malinteso tornaconto personale o diventa strumento di ignobili pressioni e umiliazioni. E’ una pratica purtroppo diffusa, soprattutto in piccole comunità o in mondi chiusi. Il selfie ricattatorio ha sostituito la piazza del paese, dove correvano pettegolezzi e calunnie e la classe scolastica in cui si nascondeva Lucignolo.
Le cronache di questi giorni ci hanno regalato la dimensione più estrema e inquietante del fenomeno : il selfie delle proprie azioni più ignobili, l’assoluta prova di colpevolezza, l’auto ritratto della propria vergogna. Come altrimenti definire gli stupratori di Viterbo (tra parentesi, aderenti a Casapound) o i ragazzini torturatori di Manduria? I media raccontano ogni giorno, spesso con gratuita dovizia di particolari, orrendi delitti, femminicidi, mostruose esplosioni di violenza domestica, terribili vessazioni di innocenti, per lo più bambini. Individui non sempre mentalmente responsabili hanno passato il limite delle proprie pulsioni, hanno perso come si dice il controllo delle proprie azioni. Talvolta si spingono a una confessione liberatoria, si costituiscono. Più spesso negano e si nascondono.
il filmato di ciò che ogni colpevole tenderebbe a nascondere va oltre la nostra già inquietante dimensione della devianza sociale. Si può interpretare come l’ultimo stadio del cretinismo tecnologico
Ma il filmato di ciò che ogni colpevole tenderebbe a nascondere va oltre la nostra già inquietante dimensione della devianza sociale. Si può interpretare come l’ultimo stadio del cretinismo tecnologico, la condizione in cui vive una parte non piccola di individui, in maggioranza giovani e adolescenti. Si tratta di un così estremo distacco dalla realtà per cui un qualsiasi atto e una qualsiasi immagine (anche la più perversa o ignobile) non appartiene al nostro modo reale o interiore ma a una realtà virtuale di cui inconsciamente non ci sentiamo responsabili. Diventiamo noi stessi attori di un orribile film. La regressione mentale porta a sentirsi come i bambini che giocano a cow boy contro indiani, con revolver e frecce, “fingendosi” a turno sterminatori o vittime. Il cellulare ha sostituito frecce e revolver?
Si può invece ipotizzare, al contrario, uno spropositato bisogno di esistere, di affermazione di sè stessi, del proprio potere, della propria sessualità, della propria appartenenza al branco, tanto da “certificare” l’azione compiuta, indipendentemente dal rischio di essere scoperti. Saremmo cioè di fronte a una manifestazione di orgoglio, incurante delle conseguenze, quasi a una sfida al mondo per corroborare la propria fragile identità.
In ogni caso, siamo di fronte a una disperante degenerazione della rete e dei nostri comportamenti in rete. Se in rete è permesso insultare, denigrare, diffondere false notizie, criminalizzare avversari, esaltare atti di violenza e persino di terrorismo, quasi sempre nella certezza dell’impunità e molto spesso con il potere di “firmare” il proprio pur vergognoso pensiero – se tutto questo è possibile nella realtà virtuale – allora il filmato della violenza, da noi stessi compiuta, è forse soltanto l’ultimo stadio del cretinismo tecnologico. La degenerazione della rete è solo lo specchio, purtroppo reale, di una degenerazione mentale.
*editorialista del Corriere della Sera, qui opinioni personali.