Caro Davide, forse lo avrai intuito. Nei pezzi che scrivo su Pangea cito Cioran non solo perché lo conosco come le mie tasche da decenni, ma anche, diciamolo pure, per rompere i coglioni a quelli che lo detestano (e non sono pochi). Per fiero dispetto. E perché, in un’epoca così priva di linfa e lucidità, lui è un balsamo salutare, una tenda nel deserto, al contrario di quello che pensano erroneamente i più. Pensa, perfino all’interno dell’Adelphi, all’inizio degli anni Ottanta, alcuni si rammaricarono della scelta di iniziare a pubblicare Cioran. E questo la dice lunga. In America al contrario lo pubblicavano già dalla fine degli anni Sessanta… ma anche qui, l’accoglienza non fu sempre pacifica. Giulio Meotti su ‘Il Foglio” di domenica scorsa ha ripreso l’articolo di “Pangea” dedicato a Ionesco per scrivere un pezzo intorno al grande drammaturgo rumeno
Ricordo, tra gli aneddoti sui veri lettori di Cioran, che non si fanno sopraffare dall’irritazione, quella ragazza libanese che « In una cantina di Beirut, sotto i bombardamenti, leggeva Cioran, perché in quella situazione disastrosa, ne trovava tonico lo spirito e corroborante lo humour. O come quella giapponese decisa ad uccidersi, che scoprì in tempo i ragionamenti di Cioran intorno al suicidio e si mise a scrivergli. La felicità di una ossessione condivisa aveva trasformato l’idea fissa in una conversione epistolare». Ricordo anche le parole del poeta e scrittore Jules Supervielle, la prima persona ad aver letto il Sommario di decomposizione, ancora in manoscritto. Era già molto anziano, profondamente incline alla depressione, eppure disse: «È incredibile quanto mi abbia stimolato il suo libro».
In Italia Cioran è ormai diventato una cartina di tornasole, uno spartiacque, secondo il modo in cui si reagisce al suo nome. Sia i suoi accaniti detrattori, che i suoi adoratori sono ovviamente da prendere con le pinze, sempre. E nessuno dei suoi feroci detrattori (Steiner, Magris, Berardinelli, solo per fare alcuni nomi), ovviamente, si è mai rivelato un suo pari, né gli ha corrisposto in alcun modo nella creazione. Sarebbe interessante vedere un avversario di pari rango, qualcuno che ci rapisse, con argomenti contrari, allo stesso modo. Un antagonista vitale. Ahimè oggi non se ne vede la benché minima traccia. Gli argomenti della cultura Giusta, quella Buona, dello scrupolo critico, sono sempre fragili, e perdenti, di fronte a un raffinatissimo pensatore da strada, a un superbo spacciatore di prosa francese (ci vuole del genio e della poesia per ridare vita e linfa a una lingua anemica ed estenuata come poche), allo ‘stilista’ che ha tono e invadenza ambigua del reale. E guai a chiamarlo ‘filosofo’, come molti si ostinano a fare, con una definizione che, sono sicuro, avrebbe respinto con sdegno.
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Quanto a suoi fan. Li detesto quasi tutti, autorevoli commentatori e curatori compresi (che quasi sempre ne danno interpretazioni fuorvianti), e ancor più i suoi giovani studiosi, che oggi si gettano come stormi impazziti sul suo cadavere, con pallido fervore, e un inevitabile equivoco, che genera immancabili aborti critici. Giacché nella maggior parte dei casi non sono in grado di restituire tono e musica dell’oggetto del loro amore – quelli che ci vanno vicino si possono contare sulle dita di una mano, forse… Ceronetti, Citati, Rigoni. L’entusiasmo intellettuale per un grande scrittore, infatti, porta non pochi inconvenienti, se non si è adeguatamente dotati, molti dei quali un giorno verranno visti per quello che sono. Gli unici a superare talvolta questa impasse sono le eccezioni che rispondono e corrispondono a loro volta, in qualche misterioso modo, alle eccezioni che li appassionano (vedi la Bre con la Dickinson, per esempio), e per il semplice motivo che hanno qualcosa da dire in proprio, in quanto creatori, al di là delle semplici tassonomie e astrazioni. Al contrario, i miseri compositori di idee altrui, di fronte all’esperienza di un’eccezione, a un ‘appassionato amante’, fanno troppo spesso l’effetto di amorosi eunuchi.
Da far sapere a un giovane: dire, oggi, di essersi formati con Cioran – di per sé già una presunzione equivoca – provoca, tra gli altri, almeno due inconvenienti. Il primo, che ha origine tra i suoi detrattori, consiste nel perdere, per ciò che più conta, quasi ogni autorità pubblica come critico (ah, lo scrupolo critico!), se mai, malauguratamente, si volesse essere uno di loro. È mai possibile, infatti, indugiare su un rumeno “nero come la notte” (G. Steiner), un inutile – ah, la tirannia dell’utile! – apocalittico estetizzante o un “petulante manierista” (A. Berardinelli)? Il secondo, consiste nel rischio comprensibile, di essere considerati dei sospetti importuni, uno dei tanti imbecilli smodatamente sedotti da Cioran. Una legione. Sospetto che nella maggior parte dei casi si rivela fondato.
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Vengo al dunque. Ho letto il tuo bel pezzo dedicato a Ionesco su Pangea, dove si accenna anche a Cioran e al rapporto che Ionesco aveva con lui. Sono sempre rimasto stupito dalla feroce miopia di certi giudizi sferzanti e, in fondo, liquidatori. Ionesco se la cava troppo a buon mercato, con i facili argomenti – quelli morali – del Giusto che non si è mai compromesso realmente con l’ambiguità dei fenomeni del mondo e della vita umana. L’assurdo Ionesco l’ha solo cantato, da buon drammaturgo che non si è mai davvero mischiato con l’abisso, mai voltolato nella melma. Così è troppo facile. Certo, la maggior parte di noi, quando sfiora l’abisso, l’estremo, si spera lo faccia cercando di non sacrificarsi alla vita violenta ma, al contrario, semplicemente per forzare i limiti della propria natura, e non esser colpevoli di un inammissibile attaccamento all’etica, e di essersi inchinati al tribunale della ragione. E se, ahimè, accade di superare certi limiti, Ionesco rifiuta di ammettere che, eventualmente, sono proprio “le persone a cui vibra il cuore a fare gli eroi, i dissennati di una volta a fare i saggi, i peccatori, gli osceni e i nemici della legge, a fare i santi… un assassino può avere bisogno di Dio, che dico? ha bisogno di Dio più di chiunque altro… L’individuo è molto più importante delle sue ‘sue idee’ e dei suoi ‘illustri testi’, il creatore è molto più importante della sua opera; non è il “sistema logico” di un uomo che importa, né la sua condotta, né le sue azioni eroiche. Che diserti, che si contraddica, tradisca, commetta viltà imperdonabili, tutto è preferibile ad essere un Giusto, un Santo!” E sai chi lo scrive? Benjamin Fondane, nel suo Baudelaire e nel suo Rimbaud, un gasato ad Auschwitz, e uno che aveva il cuore che pendeva dalla parte giusta, direbbero i più. Davide, non mi sono mai piaciuti i puri col dito alzato, né gli aedi dell’assurdo drammaturgico che si accomodano sulla sedia degli Accademici di Francia. E una giusta indignazione morale troppo spesso può scadere anche nel politicamente corretto, nella cattiva deriva di un alibi gnoseologico, vettore di luce morale, atto apologetico criticamente consolatorio, teleologia etica per i ben pensanti.
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