* Pubblichiamo un estratto del libro Sotto tiro: L’Italia al tempo della corsa alle armi e dell’illusione della sicurezza, di Stefano Iannaccone, edizioni People, 2019, con prefazione di Carmine Gazzanni e postfazione di Giorgio Beretta
Uno dei motivi per cui la propaganda della legittima difesa riesce a sedurre molti cittadini è la percezione di uno Stato che non riesce a garantire sicurezza. Il decimo Rapporto sulla sicurezza e l’insicurezza sociale in Italia e in Europa ha messo in evidenza un aspetto:
Il 29% degli italiani teme di subire un furto in casa: è il tipo di reato che, in modo trasversale nella comparazione decennale, genera maggiore inquietudine, tra quelli che rientrano nella cosiddetta micro-criminalità. Stabile nel confronto con il 2016, aumenta peraltro di 6 punti se confrontato con il dato del 2007.
Una ricerca del Censis sulla filiera della sicurezza aggiunge ulteriori elementi di analisi:
Il 31,9% delle famiglie italiane percepisce il rischio di criminalità nella zona in cui vive. Le percentuali più alte si registrano al Centro (35,9%) e al Nord-Ovest (33%), ma soprattutto nelle aree metropolitane (50,8%), dove si sente insicuro un cittadino su due. La criminalità continua ad essere ritenuta un problema grave per il Paese, segnalato dal 21,5% degli italiani, al quarto posto dopo la mancanza di lavoro, l’evasione fiscale e le tasse eccessive. Ad essere più preoccupate sono le persone con redditi bassi, che vivono in contesti più disagiati e hanno minori possibilità di utilizzare risorse economiche personali per l’autodifesa: per loro la criminalità diventa il secondo problema più grave del Paese (segnalato dal 27,1%), dopo la mancanza di lavoro.
La tutela dell’incolumità personale e la salvaguardia della proprietà privata dei cittadini sono responsabilità delle istituzioni, ma se queste sono giudicate inadeguate si mette automaticamente in moto un meccanismo che spinge i cittadini a cercare di garantirsi la propria sicurezza da soli. Sempre il Censis ha evidenziato che il 39% degli intervistati si è detto favorevole al possesso di armi per sentirsi al riparo dalla criminalità. Una cifra importante e preoccupante, per quanto minoritaria. L’istituto della legittima difesa, peraltro, è stato concepito con un obiettivo giuridico ben preciso, come ha spiegato Giorgio Beretta, analista dell’OPAL di Brescia:
Va ricordato che la legittima difesa, nel suo senso originario e proprio, è nata per garantire la tutela della persona, non della proprietà o delle cose. E che proprio per questo il nostro ordinamento per decenni l’ha assicurata sottoponendola però ai requisiti dell’attualità del pericolo, della necessità e della proporzionalità all’offesa proprio per evitare che venisse utilizzata in modo strumentale ed arbitrario per una “giustizia-fai-da-te”.
Il principio giuridico ha però ceduto il passo alla propaganda, connotando la legittima difesa come strumento di giustizia personale. Era già accaduto con la riforma del 2006 e il discorso è pronto a ripetersi: lo Stato tende ad abdicare alla sua funzione di garanzia della sicurezza, preferendo allargare le maglie per armare i cittadini.
Prende così piede l’idea che il cittadino possa e debba badare a se stesso anche di fronte a un ladro, lasciando immaginare come giusto, quasi auspicabile, il principio di azione individuale
Un fattore che incide sul sentimento di insicurezza è senza dubbio il sistema dell’informazione, in particolare quello locale, che rispetto agli altri Paesi europei dà ampia visibilità alle notizie legate alla criminalità. Viene meno la fiducia nella Legge e si scioglie, quantomeno nella percezione collettiva (o comunque di un’ampia fetta della popolazione) quel legame che dovrebbe essere indissolubile tra cittadino e Stato: in questo contesto affiora e prolifera la domanda della difesa “fai-da-te”. Nasce questa nuova fetta di mercato che inevitabilmente non passa inosservata nemmeno al marketing politico. L’ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in un’intervista rilasciata a il Giornale il 30 giugno 2018, teorizzò anche la necessità di “liberalizzare” la sicurezza, dando agli italiani la possibilità di usare la pistola in maniera più libera. Senza l’intralcio di un’inchiesta per capire la dinamica di una sparatoria. Berlusconi criticò la normativa in vigore, peraltro frutto del lavoro della sua parte politica (Berlusconi era allora a Palazzo Chigi):
Questa impostazione, fortemente limitativa dei diritti del cittadino, assegnando allo Stato il monopolio dell’uso legittimo della forza concede al cittadino il diritto di difendersi solo in casi eccezionali. […] Il cittadino paga le tasse perché sia lo Stato a svolgere questo servizio, attraverso la Polizia e i Carabinieri, ma non per questo perde il diritto a garantire la propria sicurezza, quella dei propri cari e dei propri beni. Ciò significa che quando un cittadino si difende compie un atto del tutto legittimo.
Prende così piede l’idea che il cittadino possa e debba badare a se stesso anche di fronte a un ladro, lasciando immaginare come giusto, quasi auspicabile, il principio di azione individuale nei confronti della criminalità. Una sorta di privatizzazione della sicurezza, un modello culturale che sdogana un altro elemento, ancora più inquietante: il mito della vendetta. Un uomo armato, vittima di un reato, non crede che la giustizia possa passare attraverso i canali del diritto: è molto più comodo fare da sé. Ma, come ha ben spiegato l’ex pm di Mani Pulite, Gherardo Colombo:
La giustizia è sempre stata considerata una vendetta istituzionale, il mezzo attraverso cui la vendetta privata è passata nelle mani dello Stato che ha così acquisito il monopolio della violenza e l’ha esercitata sottraendola ai singoli e svolgendo una funzione terza nel conflitto tra le parti, costituendosi, così, giudice. […] Guardiamo la storia. Il Codice di Hammurabi introdusse una limitazione alla vendetta: prima, chi subiva un torto poteva vendicarsi senza limiti. Con la legge del taglione, se uno ti cavava un occhio non potevi sterminargli la famiglia, ma solo riservargli il medesimo trattamento. Sebbene alternative siano state espresse a più riprese nel tempo (soprattutto nei secoli più recenti), la cultura si è fermata lì e non è stata capace di aprire lo sguardo verso un’idea diversa di giustizia, che è, peraltro, quella adottata dalla nostra Costituzione.
La storia di Carlo Martelli, il medico aggredito a Lanciano (Chieti), è esemplare per umanità e lucidità. Nella notte tra il 22 e il 23 settembre 2018, una banda di malviventi si è introdotta nella sua villa, sequestrando lui e la sua compagna per due lunghe ore. Così raccontò la Repubblica, in un articolo di Alessandra Ziniti del 23 settembre 2018:
Pur di convincere i due coniugi a indicare loro la cassaforte, che in casa non c’era, sono arrivati a tagliare alla donna il lobo di un orecchio con un coltello. Il medico invece è stato massacrato di pugni al volto, mentre il figlio disabile per fortuna non è stato toccato. La sua stanza è stata però messa a soqquadro dalla banda di malviventi che, alla fine, si sono dovuti accontentare di prelevare quanto possibile con il bancomat e le carte di credito dei coniugi Martelli.
Un uomo armato, vittima di un reato, non crede che la giustizia possa passare attraverso i canali del diritto: è molto più comodo fare da sé
Nelle interviste rilasciate dopo la scioccante aggressione, Martelli è stato chiarissimo: «Io la pistola non me la compro. Averla significa essere disposti a usarla e un cittadino normale non lo è. È lo Stato che deve difenderci. Se avessi avuto una pistola in casa ci avrebbero ucciso con quella». E ancora: «Non sono capace di uccidere, nemmeno un delinquente». Parole significative, eppure ignorate dal leader della Lega che ha fatto riferimento al caso dichiarando solamente che gli aggressori devono «marcire» in carcere. Nessuna menzione al pensiero della vittima, al rifiuto di qualsiasi arma.
Le forze dell’ordine, in riferimento alla rapina di Lanciano, hanno fornito le loro raccomandazioni. Alessandro Giuliano, a capo del Servizio Centrale Operativo (sco) della Polizia, ha spiegato a Rinaldo Frignani, del Corriere della Sera, i comportamenti da tenere:
Il nostro consiglio è di non opporre mai resistenza e fare il possibile affinché vadano via al più presto. Il confronto è impari. Semmai, se si può, provare a far mente locale su dettagli che saranno poi utili per chi indaga: descrizione dei rapinatori, come parlavano, come si sono mossi, cosa hanno toccato. E quando sono fuggiti è importante non alterare lo stato dei luoghi.
Mimmo Cortese, membro del consiglio scientifico dell’OPAL di Brescia, ha spiegato, in un’intervista dell’8 maggio 2017 al blog Confini di Rai News, come il possesso di armi abbia infatti sventato pochi furti e causato invece molti guai:
Limitandoci al primo trimestre di quest’anno [il 2017, n.d.A.], a fronte di due o tre casi in cui le armi legalmente detenute da cittadini sono state utilizzate per sventare un’aggressione o un furto in casa, vi sono ben dieci casi di omicidi compiuti con armi legalmente detenute che hanno portato alla morte di 15 persone. Vi sono inoltre una quindicina di legali possessori di armi che sono sotto indagine per tentato omicidio, minaccia di morte e minaccia aggravata e sono diversi anche i casi di legali possessori di armi scoperti con armi illegali.
Entrando nel dettaglio statistico, prendono forma le preoccupazioni rispetto alla presenza di armi come strumento di morte. Addirittura, le tragedie “della normalità” si avvicinano, come cifra, ai delitti mafiosi. Spiega Beretta dell’opal:
I dati forniti all’Istat dal Viminale riportano per il quinquennio 2012-16 una media annuale di 475 omicidi volontari di cui 51 sono ‘di tipo mafioso’ e 31 ‘per furto o rapina’ (si tratta, ovviamente, di omicidi perpetrati con qualsiasi tipo di strumento/mezzo). Il rapporto del Censis segnala che nel 2016 in Italia vi sono stati 150 omicidi compiuti ‘con armi da fuoco’ detenute sia legalmente che illegalmente. Da un’indagine che ho condotto per l’Osservatorio opal risulta che nel 2017 vi sono stati più di 40 omicidi effettuati con armi legalmente detenute. Ciò significa che gli omicidi compiuti con armi a disposizione di legali detentori e loro famigliari rappresentano quasi un terzo di tutti gli omicidi compiuti con armi da fuoco, sono molto di più di quelli compiuti (con ogni mezzo) per rapine e sono di poco inferiori alla media di omicidi per mafia.
La differenza è che queste tragedie vengono raccontate come fatti di cronaca, spesso a carattere locale, che occupano lo spazio di un trafiletto sul quotidiano o di un servizio in tv. Vengono interpretate in maniera isolata, non sono inserite in un quadro complessivo, che aiuterebbe a considerarle come un preciso fenomeno sociale. Salvo gli episodi più clamorosi, che animano il dibattito per qualche giorno salvo poi finire nell’oblio.
«Io la pistola non me la compro. Averla significa essere disposti a usarla e un cittadino normale non lo è. È lo Stato che deve difenderci. Se avessi avuto una pistola in casa ci avrebbero ucciso con quella». E ancora: «Non sono capace di uccidere, nemmeno un delinquente»
Lo spiega bene anche Gary Younge, parlando della realtà statunitense. Il suo lavoro rivela la quotidianità della violenza e della morte causate da armi da fuoco negli Stati Uniti. Il libro, Un altro giorno di morte in America, sceglie un giorno a caso sul calendario, senza alcun riferimento particolare. Il 23 novembre 2013 non è una data storica, non è avvenuto nulla di memorabile. Eppure, in quelle poche ore sono stati uccisi dieci ragazzini:
Come il clima di quel giorno, nessuno di loro sarebbe finito sulle prime pagine dei quotidiani nazionali perché, proprio come il clima, la loro morte non turbava l’ordine stabilito, ma anzi vi si conformava. Rispetto a quanto ci si poteva aspettare da un sabato americano qualsiasi, infatti, nemmeno in questa cifra c’era l’ombra dell’inganno perché era esattamente quello cui la nazione era abituata.
Un sabato qualsiasi, dunque, negli Stati Uniti. Ma il ragionamento di Younge ha un carattere universale: non viene indagato il problema della diffusione delle armi nel suo insieme e manca perciò la consapevolezza culturale di una questione da affrontare e risolvere. Così gli amanti delle armi minimizzano le morti causate da pistole e fucili, sostengono che sono singoli episodi. Incidenti. Eventi occasionali. Eppure non è così:
Se ognuna di queste morti rappresenta una tragedia personale con le sue ripercussioni all’interno della comunità, la loro somma non suscita che l’indifferenza generale. Agli omicidi che avvengono ogni singolo giorno in luoghi e circostanze diverse manca infatti il carattere massivo e drammatico capace di attirare l’attenzione dei media nazionali come fanno le stragi nei cinema o nelle chiese. Distanti dal suscitare l’intesse dei giornalisti, queste morti quotidiane non sono altro che un monotono stillicidio, un brusio di fondo così debole da permettere al Paese di andare avanti indisturbato.
Il discorso è stato ripreso anche da Joe Nocera, giornalista del New York Times, citato da Younge: «Le morti individuali non hanno lo stesso effetto e la stessa capacità di scuotere la popolazione delle sparatorie di massa, perché queste ultime sono spettacoli pubblici». In Italia, per fortuna, non esistono casi di mass shooting come negli Usa, salvo rarissimi casi. E ancora di più, quindi, sono valide le parole di Younge: «Nessuno se ne rende conto, che cose del genere succedono ogni giorno».