Intelligenza artificiale e deep learning, droni e robot, blockchain e smart contract, cybersicurezza: una realtà sempre più generata, alimentata, protetta – attaccata? – dalle macchine si affaccia intorno a noi. È un universo automato che incalza e che merita di essere analizzato in sé, senza preconcetti, con apertura, consapevolezza e profondità. L’automatizzazione sta ridisegnando le nostre idee e categorie concettuali, le attività professionali e le relazioni umane, le pratiche cognitive e disciplinari, l’etica e la politica. Filosoficamente, un orizzonte che non è solo tecnologico o infrastrutturale, ma più ontologicamente fondativo: automazione, dunque, non solo come spinta ingegneristica a costruire macchine e automi, ma come prospettiva più generale di produzione del nostro reale e del suo senso.
Pubblichiamo un estratto de Il Mondo ex machina. Cinque brevi lezioni di filosofia dell’automazione (edizioni Egea)
Di tanto in tanto nei boschi intorno a Boston accade di intravedere stupefacenti creature artificiali, per molti versi al contempo affascinanti e terrificanti. Passeggiano e corrono lungo campi erbosi, saltano agilmente tronchi d’albero e sassi, si inerpicano per alture collinari impervie. Sono il parto della mente e della mano di un novello Efesto, un emulo del dio greco maestro nell’arte di animare i bronzi, come recita un famoso verso dell’Iliade. Al pari del suo divino precursore, nei suoi laboratori e insieme ai suoi collaboratori, Mark Raibert – questo è il nome del fondatore e presidente di Boston Dynamics – forgia e assembla macchine autonome in forma d’uomo o d’animale. Si tratta di robot reali, i più avanzati al mondo, a detta degli esperti. Sono idealmente simili agli automi più popolari del nostro immaginario : quelli dei poemi di Omero, dei disegni di Leonardo, dei romanzi di Asimov o del cinema di Ridley Scott col suo Blad Runner. Quelli di Mark si chiamano Atlas, Handle, Spot, Wildcat, RHex, BigDog. Le loro strabilianti performance lavorative, ludiche e sportive sono videoriprese e riproposte in internet a suscitare la meraviglia e lo stupore di molti (e lo sconcerto e il terrore di altrettanti). Nata nel 1992 come spin-off del MIT, la società creata da Raibert, e rilevata da Google X a fine 2013, è stata acquisita nel 2017 dal gruppo giapponese SoftBank guidato dal visionario fondatore (oltre che potentissimo investitore in tecnologie d’avanguardia) Masayoshi Son.
Non sappiamo, a oggi, di preciso dove porterà questo incontro. Di sicuro c’è che Masa e Mark stanno lavorando convintamente e in accelerazione perché l’automazione robotica abbandoni quanto prima laboratori e prototipi e irrompa industrialmente e massivamente nella società e nell’economia. Ho incontrato e conosciuto personalmente Mark nell’estate 2018, quando, indossando una delle sue immancabili camicie floreali in occasione di una lectio al Massachusetts Institute of Technology, ha tenuto a precisare una prospettiva vitale per il presente e il futuro della sua azienda. «È arrivata l’ora», ha dichiarato, «di spingere per il trasferimento dei nostri robot dai laboratori ai mercati». Uno scenario che cambia di fatto anche la nostra idea di che cosa un robot può fare – come recita il credo di Boston Dynamics. Sempre più automazione, quindi. E a leggere i dati di fine 2018 della Federazione Internazionale di Robotica relativi all’anno precedente non ci sono dubbi. Nel 2017 la vendita mondiale di robot industriali è salita del 30 per cento (quasi 382mila unità), raggiungendo un nuovo picco nella crescita continua degli ultimi cinque anni. Una curva positiva che è in rapida accelerazione dal 2010, trascinata dagli acquisti di macchine industriali nell’area asiatica. Nuovo record anche per l’Italia dove le installazioni della robotica industriale hanno raggiunto le 7700 unità nel 2017, in crescita del 19 per cento rispetto all’anno precedente: un tasso superiore a quello giapponese (18 per cento), più del doppio rispetto a quello tedesco (7 per cento) e triplo di quello statunitense.
Per non parlare della mirabolante crescita della robotica cinese, in salita del 59 per cento e legata soprattutto all’automatizzazione dell’industria manifatturiera. Il tutto senza contare i robot non industriali (dalla domotica intelligente alla mobilità autonoma) che diversi player stanno immaginando di immettere nei mercati, dentro le nostre case e lungo le nostre autostrade. A settembre 2018, McKinsey & Company titolava un suo executive report The Automation Imperative riconoscendo proprio nell’automazione di processi e servizi un fenomeno dalla portata trasformativa globale e profonda. I dati della ricerca sono eloquenti: a livello mondiale, il 57 per cento delle imprese ha avviato processi di automatizzazione (il 16 per cento in scala sull’intero business, il 13 per cento parzialmente e il 28 per cento per progetti pilota); un altro 18 per cento ha in programma di automatizzare processi produttivi e modelli di business a partire dal 2019. Non stupisce, allora, che la trasformazione della gestione dei processi di business attraverso la cosiddetta robot process automation (RPA) sia nelle agende di molti amministratori delegati, imprenditori e manager.
Un mercato quest’ultimo che, secondo l’istituto di ricerca Gartner, nel 2018 è cresciuto del 57 per cento e che arriverà nel 2022 a 2,4 miliardi di dollari dagli attuali 680 milioni . Alla luce di queste cifre, è ipotizzabile che stiamo per raggiungere un nuovo tipping point, un punto di non ritorno nella storia dell’economia automatizzata e conseguentemente nella sofisticazione della scienza dell’automazione. Un ultimo dato: invertendo l’attuale composizione del tempo di lavoro (29 per cento alle macchine, 71 per cento ai lavoratori), nel 2025 per la prima volta nella storia umana, secondo il World Economic Forum6 , la quota di tempo lavorato dalle macchine (52 per cento) supererà quella lavorata dall’uomo (48 per cento). Infine, il New York Times con un articolo di fine gennaio 2019, dal titolo sorprendentemente cospirativo («L’agenda nascosta delle élite di Davos per l’automazione»), ha tinto di giallo il tutto rilanciando, dall’annuale meeting svizzero, la sensazione che in pubblico i leader del mondo si mostrino preoccupati dei pericoli e dei rischi del fenomeno, e nelle conversazioni e negli incontri privati si dicano invece pronti ad automatizzare in maniera intensiva i rispettivi business per non venire estromessi dalla competizione mondiale.
Con il trapelare di questa prospettiva e il sorpasso del tempo del lavoro macchinico atteso nel prossimo quinquennio si profila dunque sempre più all’orizzonte un mondo ex machina, vale a dire un mondo generato, movimentato e manutenuto risolutivamente dalle macchine. Forse è anche sufficiente, al di là dei numeri, dare un’occhiata alle manifatture, ai magazzini di stoccaggio, alle filiere logistiche, ai centri di elaborazione dati per apprezzare questi nuovi tecno-paesaggi così rilevanti per l’umano (e per la sua futura economia e società) e, al tempo stesso, così privi di umani. Luoghi in cui all’umanità sono impediti la presenza e l’accesso perché ritenuti ridondanti quando non invalidanti. Come racconta Young nel suo Machine Landscapes , le architetture attualmente più significative al mondo sono prive di persone: dai porti automatizzati ai campi agricoli robotizzati, dalle reti autonome di comunicazione alle stazioni orbitali extraterrestri si tratta di ambienti sempre più affollati di automi, ma insieme deserti di umani. Contesti, quindi, intenzionalmente disegnati per un’eccellente machine experience e negati a qualsivoglia human experience.
Spazi che implicano e impongono, in molti casi, proprio l’assenza dell’umano come condizione necessaria per poter funzionare efficacemente. Con una provocazione, allora: tecnologie astensive e non più estensive dell’umano. Hic sunt drones, potremmo dire aggiornando le nostre paure su queste terre incognite, inesplorate perché inesplorabili. Impressionante, d’accordo, ma è tutto qui? Non credo. Ispirandosi a un detto antico, il titolo del libro che state leggendo non vuole essere solo un richiamo a una realtà in divenire sempre più popolata da automi: umanoidi, animaloidi o plantoidi che dir si voglia. E non intende neppure essere l’incipit di un testo sulla nuova civiltà (o inciviltà a detta di altri) delle macchine. Piuttosto – e più radicalmente – Il mondo ex machina si propone di avviare un’esplorazione filosofica della dimensione automatica in quanto tale.
Se nel precedente saggio Il mondo dato ho raccontato della «programmabilità» del mondo, in questo nuovo volume affronterò la questione cruciale della sua «automabilità». Dopo aver svelato filosoficamente come la programmazione del codice software stia costruendo una nuova società, nuove economie e nuove organizzazioni, vedremo allora come l’automatizzazione stia istituzionalmente (non solo tecnologicamente) ridisegnando idee e prospettive concettuali, attività professionali e relazioni umane, pratiche cognitive e disciplinari, dinamiche di design e di politica nel mondo. Ma anche nuove tecniche e pratiche per una sua distruzione automata su scala planetaria.
Filosoficamente, un orizzonte che non è solo tecnologico o infrastrutturale, ma – azzarderemo – più ontologicamente fondativo. Automazione, dunque, non solo come spinta ingegneristica a costruire macchine e automi, ma come una più complessiva prospettiva di senso e di produzione del nostro reale in divenire. A me pare, infatti, che stia emergendo – in maniera ancora poco avvertita dai più e molto agita da alcuni – una nuova vocazione del mondo all’automaticità, un’inclinazione della nostra società nel suo complesso verso nuovi automatismi. È questo l’orizzonte di un mondo automato che urge e che merita di essere analizzato in sé, senza preconcetti neoluddisti, ma con apertura, consapevolezza e profondità. Una critica (nel senso di analisi) di questa ragion automatica che non è, come dicevo, solo ed esclusivamente algoritmica o robotica, dimensioni per le quali è immediato ed evidente il richiamo all’automaticità. Più astrattamente, mi sembra di intravedere nell’automazione ora in fieri una nuova ontogenesi, cioè un nuovo modo di essere, di generarsi e riprodursi (e distruggersi) del mondo.
Azzarderei di più: questa ontogenesi è, in ultima istanza, una ectogenesi. Un mondo che cresce dentro e grazie a una macchina-matrice. Un mondo, cioè, che si avvia sempre più a essere allevato – metaforicamente, ma anche materialmente – in seno a una tecno-ecologia riproduttiva automata, come accade per le vite biologiche fatte crescere all’esterno del loro ambiente naturale, dentro placente e incubatrici artificiali. La macchina-madre del mondo, dunque. Chiediamoci, allora, come fa Irina Aristarkhova, filosofa delle maternità ectogenetiche: «Può la macchina generare?», può dare senso e dare futuro al mondo? Questa matrice automatica, questa nuova forza creatrice del mondo la vediamo già embrionalmente operare in molte dimensioni e industrie: nella produzione della conoscenza (machine e deep learning), nella creazione della fiducia (blockchain technology), nell’esecuzione della legge (smart contract), nell’attivazione degli scambi (automated markets), nella gestione della guerra (autonomous weapons), nel trading ad alta frequenza (high-frequency trading), nella manutenzione dei dati (autonomous datacenter), nell’editoria e nel giornalismo (automated journalism), nella consulenza patrimoniale (robo-advisor), nell’operatività chirurgica (robotic surgery), nell’agricoltura di precisione ( farmbot), nella dislocazione logistica (logistics automation), nella governance delle organizzazioni decentralizzate (decentralized autonomous organization) e così via. La lista non è esaustiva ed è destinata certamente ad allungarsi.
Il futuro, pertanto, sarà automatico o non sarà. Tutto il mondo sembra orientato a «muoversi da sé» (questa l’etimologia semplice di automatico) in forme e dinamiche auto-generative e neo-automatizzanti (potenzialmente anche positive, ma non prive di criticità) che sono – così mi pare – diverse dalle altre che la civiltà umana ha conosciuto nel corso della sua storia antica, moderna e contemporanea. È in atto, credo, un cambio di paradigma epocale che culture, istituzioni e imprese faticano a comprendere e che – di più, direi – sono impreparate a cogliere. A fronte di questa crescente emergenza globale (nel senso di novità e di vulnerabilità non solo tecnologica, ma appunto culturale), i discorsi correnti scalfiscono a mala pena la superficie, impossibilitati come sono a riconoscere la natura profonda di questa nuova condizione. Non tanto e non solo nella sua portata quantitativa, ma soprattutto nel suo impatto trasformativo e qualitativo profondo. Non tanto e non solo nella sua dimensione tecnologica progressiva e pervasiva, ma per l’appunto in quella ontologica costitutiva e fondativa.
Automazione, quindi, non come meccanismo neomacchinico, ma come dinamismo neo-ecologico. Incapaci di cogliere questo cambio paradigmatico (per inconsapevolezza, per stanchezza o per vecchiezza), continuiamo a guardare al fenomeno dell’automazione attraverso categorie concettuali e modelli speculativi obsoleti. Sono «più che macchine» come ha titolato, giustamente, la rivista Nature nel lanciare il suo speciale Nature Machine Intelligence a gennaio 2019. Automazione da leggere con lenti speculative e filosofiche nuove. Ma che cos’è questa nuova dimensione dell’automazione, questa spinta automatizzante che sta pervasivamente conquistando il nostro mondo? Credo sia arrivato il momento di affrontare filosoficamente la questione. È tempo di iniziare un percorso speculativo che sia in grado di raccontare e reimmaginare, con una certa radicalità di pensiero, l’automazione. Chiediamoci, allora, com’è (e perché) un mondo che «da sé si muove».