Un paese senza letteraturaScurati ha vinto, ma ormai il Premio Strega è la copia brutta e povera del Festival di Sanremo

Vince Antonio Scurati col suo librone su Mussolini. Un tomo mediocre ed evitabile, come la kermesse romana. Che finalmente svela la sua vera natura: è la Sanremo dei libri, ma costruita con meno professionalità, e con protagonisti peggiori

Il contesto. Casa Bellonci, Premio Strega. Inutile implorare il sabba: a Roma si esegue la liturgia cardinalizia della minzione letteraria. Nonostante il liquore, nessuna ubriacatura narrativa: di norma vince il testo beato, netto, paradisiaco. Che il lettore deve sorbirsi con serafica rottura di palle.

Il concetto. Lo Strega nasce nel 1947; il Festival di Sanremo nel 1951. Il concetto è lo stesso: intrattenere. Allo Strega non contano le opere, ma gli scrittori, microfonati come cantanti. Se le cantano tra loro. Lo Strega, nel ’51, va a Corrado Alvaro; il Festival a Nilla Pizzi.

La constatazione. Lo Strega è il Festival di Sanremo della letteratura: ne scimmiotta lo stile – c’è il pubblico ‘in sala’ e quello a casa; c’è la votazione, rito eucaristico dell’assurdo; c’è il presentatore, le interviste agli ospiti, la presentazione dei divi; c’è il brontosauro televisivo, le immani poppe di Mamma Rai a dare la vaga idea di una vacua celebrità allo scrittore.

La congiura degli intellettuali. Nazionale-popolare è un concetto di Gramsci, che lamentava, appunto, “l’assenza di una letteratura nazionale-popolare” italiana (mica di grandi scrittori ‘nazionali’ e ‘popolari’). Nazionalpopolare, poi, è aggettivo storpiato dall’hamburgheria televisiva. Il Festival di Sanremo è nazionalpopolare: lo guardano nonne&nipoti, professori&precari, preti&preziose, giornalisti d’alto bordo e cinesi dell’informazione. Lo Strega è il regno vaticano dei cardinali della cultura. Così, che paradosso, il Festival può essere più anarchico, brillante, brioso, borioso – capriole estetiche tengono in uno La terra dei cachi di Elio & Co. e Amore lontanissimo della siderale Antonella Ruggiero – dello Strega, un opificio di zombie.

La contestazione. Il Festival esiste finché se ne parla male – lo Strega pure. Sono le regole dello show: altrimenti, perché guardarlo? Certamente, entrambe le kermesse hanno edizioni che risuonano per vacuità. Il Festival del 1977 – il primo ‘a colori’ in tutta Italia – celebra un podio astruso: Homo Sapiens, Collage, I Santo California. Lo Strega del 1980 è vinto da Vittorio Gorresio con La vita ingenua; in lizza: Olavio Bin, Luciano Marigo, Nerino Rossi, Giovanna Vizzari…

La competizione (ovvero: è meglio non vincere!). L’esempio cardine è il Festival del 1983. Il podio dice: Tiziana Rivale, Donatella Milani, Dori Ghezzi. In tre non fanno l’unghia del mignolo di Vasco, che arriva penultimo con Vita spericolata. Nel 1983 lo Strega va a Mario Pomilio, con il bellissimo e leggiadro Il Natale del 1833, correte a leggerlo. L’edizione del 1995, piuttosto, va, postuma, a Passaggio in ombra di Mariateresa Di Lascia, che non è una scrittrice, ma una – cito dal dildo biografico – che “si è sempre battuta per le cause della democrazia e dei diritti civili e umani nell’ambito del Partito radicale”. Quindi, che non c’entra con la letteratura. Andrea Camilleri gareggia con Il birraio di Preston e non arriva neanche in cinquina. Camilleri è il Vasco della narrativa italiana: chi vende più di lui? Neanche a volerlo lo Strega riesce a essere nazionalpopolare.

Il contorno. Cosa significa? Guardate la celebrazione dello Strega, enfatica arlecchinata cardinalizia: per stare nei tempi ‘televisivi’, si parla di tutto un po’ – musei, cinema, Il gattopardo (il film, ovviamente), Piera degli Esposti, gossip imbarazzanti, perfino Eschilo è meno tombale degli scrittori contemporanei – tranne che di libri. Perché? Perché la letteratura non ha tempi scenici, non ha tempo, vivaddio. Per fortuna, non buca lo schermo, buca il cranio della vita, perfora il fegato del lettore.

La consuetudine all’ovvio, ovvero: stupidario della cinquina. “Il libro è una possibilità d’incontro” dice la Janeczek, vincitrice dello scorso Strega: ritirateglielo per eccesso d’idiozia! Che ovvietà: il libro è sempre un incontro – ci vuole qualcuno che lo legga – ma chiede un rapporto esclusivo, che escluda ogni altro incontro. Dilaniante l’agnizione di Dacia Maraini: “L’amore vero è accettare l’altro per quello che è, non per quello che vorremmo che fosse”. Arruolata nel libro d’ore dei Baci Perugina. Stupidario degli scrittori in cinquina.

Nadia Terranova: “La colpa non è il senso di colpa”

Claudia Durastanti: “Ho scritto in uno stato di immersione profonda… Conteniamo stratificazioni e moltitudini”

Marco Missiroli: “Attraverso una crisi matrimoniale ho cercato di raccontare la crisi di una generazione, la nostra” (quando MM cammina per Milano e dice, indicandola, “questa è l’edicola di Andrea”, uno dei personaggi del suo romanzo, uno pensa, ma ci è o ci fa?, ma chi si crede di essere?)

Benedetta Cibrario: “La Storia è la nostra memoria, la Storia è il nostro futuro… la Storia va insegnata, va coltivata, va goduta… ci ricorda anche chi siamo stati”

Antonio Scurati: “Il romanzo ha questo di bello, è un genere popolare, democratico… il mio romanzo è una palestra di democrazia”

Il campione. Ha vinto Antonio Scurati. Ha vinto Benito Mussolini. Ha vinto il romanzo antisovranista ma pure il romanzo salviniano. Mentre a me fa svirgolare l’impressionante somiglianza tra Scurati e Sid, il bradipo de L’era glaciale, il mio amico intelligente ed eracliteo mi dice, “quanto a coscienza storica riguardo al fascismo, con Scurati siamo tornati indietro di almeno un ventennio”. Ha ragione.

Il campionato. Repertorio della cinquina cinguettante, cioè: scrittori in forma di cantanti da festival.

*Marco Missiroli è Marco Masini, quello di Perché lo fai, a conti fatti, né zuppa né pan bagnato, uno sfigato;

*Nadia Terranova è insopportabile come Arisa, la sciupata ostentazione dei propri vezzi, senza vizi;

*Benedetta Cibrario ha l’eleganza occasionale di Tosca: tanto brava da passare inosservata;

*Claudia Durastanti, a onor di libro, avrebbe dovuto vincere questo Strega dei buoni sentimenti e dell’antifascismo di piazza. Lei è la Luce portata da Elisa al Festival del 2001. Non ha vinto. Credo che non le importi;

*Antonio Scurati ha vinto, invece, come da copione. Mi ricorda il Riccardo Fogli del 1982, quello di Storie di tutti i giorni. Ricorderemo l’altezza, gli occhi chiari, l’occasione perduta – redigere un grande romanzo sul Duce. Nel 1982 lo Strega andava a Goffredo Parise. Fece la resistenza da ragazzino, è un grande scrittore, rileggiamolo, è meglio.

In conclusione. I premi sono importanti se danno soldi e hanno un bagliore di autorevolezza. Il Premio Strega, contando che dovrebbe essere il più prestigioso d’Italia, non conta nulla e offre un assegno ridicolo (“un premio in denaro del valore di cinquemila euro”). Per capirci, il Premio “Manuel Rojas” di Santiago del Cile – città non propriamente nota per i fasti letterari – assegna al vincitore 60mila dollari; il “Princesa de Asturias” bandisce 50mila euro, il “Cervantes” ne mette sul piatto 125mila. Per uno scrittore, a questo punto, è meglio puntare sul DeA Planeta, che offre al vincitore pubblicazione e “un assegno del valore di 150.000 euro”. Quanto all’autorevolezza, lo Strega non è come il “Booker Prize” (50mila sterline sul piatto) o il “Pulitzer” (pochi soldi, 15mila dollari, ma tanta resa), che consentono al vincitore di essere tradotto pressoché in ogni paese civile. Lo Strega è un affare rionale, come il saggio di fine scuola per far felici le famiglie. Come il Festival di Sanremo. Tanto vale berci sopra.

Di conseguenza… Perdonate se ne ho fatto una questione di soldi. Non c’è altro valore in un premio. L’opera è convalidata dalla dedizione, dal tempo, dalla mania del caso. A noi è dato preferire la povertà, adornarci di una disciplina, adorare gli al di là. Ci inceneriranno.