Il 10 maggio 2019 Calogero Antonio Montante, per tutti “Antonello”, ex presidente di Confindustria Sicilia (Sicindustria) ed ex vicepresidente nazionale e delegato per la legalità di viale dell’Astronomia, viene condannato dal Gup di Caltanissetta a quattordici anni di reclusione.
Montante è riconosciuto colpevole di di avere avere organizzato un elaborato sistema di dossieraggio. In media, sostengono i pubblici ministeri Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso , sarebbero stati effettuati accessi abusivi per un arco di 7 anni, per cercare informazioni su personaggi pubblici, tra i quali l’ex presidente dell’Irsap (l’istituto regionale per lo sviluppo delle attività produttive) Alfonso Cicero, e il magistrato ed ex assessore regionale Nicolò Marino.
A dipanare la complicata matassa dell’affaire Montante – che gli inquirenti ritengono possa anche essere in possesso delle intercettazioni tra il presidente della Repubblica Napolitano e il ministro dell’Interno Mancino sulla trattativa stato-mafia, intercettazioni che la Corte costituzionale aveva ordinato di distruggere) è il libro “Il padrino dell’antimafia – Una cronaca italiana sul potere infetto”, Zolfo editore, 312 pagine, 18 euro) dell’inviato di Repubblica Attilio Bolzoni. Siamo a inizi 2015. Il giornalista, che si trova a Caltanissetta, sua città d’origine, nota che da un giorno all’altro i quotidiani locali siciliani, che giornalmente dispensano fotografie-santini di Montante insieme al potente di turno, hanno smesso di farlo.
Strana virata per giornali solitamente acclamanti i potenti. Bolzoni contatta a Palermo un altro giornalista di Repubblica, Francesco Viviano (“il più grande cacciatore di notizie di Europa”, dice di lui), comincia ad indagare su Montante. È il 9 febbraio 2015 quando su Repubblica compare il primo di quella che sarà una lunga serie di articoli sull’imprenditore-bandiera della legalità in Sicilia, che millanta una storia imprenditoriale cominciata col nonno, ma di cui non esiste traccia se non in un libro di qualche anno prima di Gaetano Savatteri, dove si legge di una bicicletta “Montante” utilizzata da un giovane Andrea Camilleri, che potrebbe essere stato, invece, solo un prototipo (l’avvio della produzione di cicli a marchio Montante data 2011).
Bolzoni, che per l’occasione, si è ritrovato per la prima volta nella sua vita a varcare il portone di Palazzo San Macuto non come cronista, ma come teste dalla Commissione parlamentare antimafia, nel libro non fa sconti a nessuno. Alla politica, che col variare dei governi del’Isola – da Lombardo a Crocetta, passando per Cuffaro – ha continuato a riconoscere ad Antonello Montante un interlocutore privilegiato dell’antimafia cosiddetta “sociale”, ai colleghi giornalisti, di cui fa nome e cognome. E non risparmia neppure chi, leggi don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, ha continuato a ignorare le notizie ormai divenute di dominio pubblico su quella strana antimafia di Confindustria Sicilia, che aveva strombazzato ai quattro venti con il predecessore di Montante, Ivan Lo Bello, l’iniziativa di espellere dall’associazione gli iscritti che si fossero piegati al pizzo, ma che in realtà non ha mai proceduto ad alcuna espulsione.
“Il padrino dell’antimafia” è un libro che chi legge può ritenere un saggio sulla mafia, o al quale il lettore può appassionarsi come si ci appassiona a un romanzo. Chi scrive ci ha visto anche un ottimo manuale di deontologia giornalistica. «Io ho soltanto voluto raccontare una storia», spiega Bolzoni, «riportare una cronaca come fosse un articolo lungo trecento pagine che su Repubblica non avrei potuto certo pubblicare per ragioni di spazio. Di questa inchiesta su Montante ho riempito 63 taccuini».
«Le associazioni antimafia grondano di retorica. La mafia non è mai cambiata, è tornata a mischiarsi con la società. E anche lo Stato non è cambiato dopo che ha mostrato i muscoli»
Non hai risparmiato critiche, anche feroci, ai tuoi colleghi.
«Sì, che magari sono gli stessi che vanno a insegnare giornalismo ma che non l’hanno mai fatto. Ce n’è uno, di una associazione antimafia, che penso abbia vissuto il suo brivido più grande in un ufficio stampa negli anni Ottanta. Io il giornalista lo faccio».Giornalista antimafia è una definizione che ritieni corretta?
«La ritengo una pessima definizione e non mi piace. Un giornalista pubblica le notizie. Il libro l’ho scritto anche pensando proprio a quei colleghi che fanno il “copia e incolla” e senza vergogna si definiscono giornalisti d’inchiesta. Ti garantisco che alcuni funzionari di polizia scrivono molto meglio e i verbali da loro redatti sono scritti in un italiano migliore di quelli usato da tanti colleghi».A parte “l’allegro sputtanamento di colleghi”, come qualcuno ha commentato dopo aver letto il tuo libro, non sei stato molto tenero neppure con le associazioni antimafia. Mi riferisco a Libera e don Ciotti…
«Sgombriamo il campo da un equivoco: non ho nulla contro don Ciotti, ritengo soltanto che lui e Libera, al pari di altre associazioni, non abbiano gli strumenti culturali per riconoscere la mafia, che è tornata ad essere se stessa dopo la stagione stragista, che è stata solo una parentesi. Tanto che Libera ha continuato a firmare protocolli di legalità con i soci di Montante, anche quando i contorni di chi era veramente avevano cominciato a delinearsi con le inchieste in corso. Purtroppo, in tanti sono rimasti fermi alla mafia che spara. E questa è una mancanza di sapere. Le associazioni antimafia grondano di retorica. La mafia non è mai cambiata, è tornata a mischiarsi con la società. E anche lo Stato non è cambiato dopo che ha mostrato i muscoli».Nel “Padrino dell’antimafia” parli di pupi e pupari. Uno di questi lo individui nel parlamentare del Pd Beppe Lumia.
«Lumia è sempre stato nelle trame di potere siciliane. L’ex presidente della commissione parlamentare antimafia è stato storicamente vicino a Montante e ha sempre mosso i fili della politica regionale. Dietro il passaggio del potere da un governatore accusato di mafia, rinviato a giudizio e processato, come Raffaele Lombardo, a uno considerato antimafia come Rosario Crocetta si sono alternati lo stesso blocco di potere di voti, di funzionari che si sono spostati indifferentemente da una parte all’altra, è questa la flessibilità del potere, potere con il quale Montante ha sempre mantenuto rapporti».Chi è Calogero Antonello Montante?
«Una persona da sempre nel cuore del boss di Cosa nostra Paolino Arnone della famiglia di Serradifalco e di Vincenzo Arnone, il figlio, che ad Antonello farà da testimone di nozze e che prenderà le redini del clan quando il padre finirà morto suicida in carcere. Una volta arrestato lui a prendere il posto nella reggenza della famiglia sarà Dario Di Francesco, proprio uno dei pentiti che che accuseranno Montante».L’imprenditore, che è diventato una sorta di «reuccio» dell’Antimafia ufficiale, è sotto indagine per concorso esterno in associazione mafiosa
L’articolo di Repubblica del 9 febbraio 2015 a firma di Attilio Bolzoni e Francesco Viviano
Dal fondo dell’inchiesta sul «simbolo» dell’antimafia siciliana e della legalità di Confindustria salgono le prime voci e le prime accuse. «È vicino a Cosa Nostra, alla famiglia mafiosa di Serradifalco». Voci e accuse di pentiti che raccontano la loro verità su Antonello Montante, presidente di Sicindustria e componente dell’Agenzia dei beni confiscati ai boss. Questi sono soltanto alcuni frammenti di dichiarazioni di tre pentiti, raccolte in tempi non recentissimi dai magistrati della procura di Caltanissetta dove l’imprenditore, che è diventato una sorta di «reuccio» dell’Antimafia ufficiale, è sotto indagine per concorso esterno in associazione mafiosa. I collaboratori di giustizia che lo coinvolgono sono cinque ma le rivelazioni che pubblichiamo sono quelle – parziali – di tre di loro, tutti mafiosi della provincia di Caltanissetta. Uno è Pietro Riggio, un altro è Aldo Riggi, il terzo Carmelo Barbieri, un insegnante di educazione fisica nipote del boss della Cupola Giuseppe Madonia. Qualcuno di loro ha conosciuto personalmente Montante, qualcun altro riferisce confidenze ricevute dai loro capi. Parlano dei suoi rapporti con Paolo Arnone, il vecchio patriarca di Serradifalco – il paese dell’esponente di Confindustria – di una sua «mediazione» per far lavorare una ditta di mafia, del «rispetto» che alcuni picciotti dovevano portare al Montante proprio per il suo legame stretto con gli Arnone. Nei giorni scorsi l’imprenditore aveva parlato di «subdole manovre» e di «campagna mediatica» per delegittimarlo annunciando che non si dimetterà da nessun incarico, neanche da quello dell’Agenzia dei beni confiscati. Se lo lasceranno lì, l’indagato per mafia Antonello Montante si troverà seduto accanto al procuratore nazionale antimafia Franco Roberti che, per legge, occupa di diritto un incarico all’Agenzia. Ma ecco cosa dicono i tre pentiti. Aldo Riggi: «Conosco Antonello Montante dal 1990, periodo in cui stava realizzando un palazzo in via Valenti a Caltanissetta e per questi lavori la mia impresa realizzò lavori… li avevo già quasi terminati e venni avvicinato da Montante che mi chiese di sospendere le forniture ed i trasporti perché doveva subentrare la ditta di Paolino Arnone e del figlio Vincenzo (tutti e due testimoni di nozze di Montante, ndr)». Poi entra nei dettagli: «In particolare il Montante mi rappresentò il rapporto di amicizia che aveva con Paolo Arnone, così come mi fece capire di essere consapevole dell’appartenenza di questi a Cosa Nostra, motivi per i quali non avrebbe potuto non affidargli i lavori».
Dichiarazione a verbale di Pietro Riggio. Dopo avere premesso di non avere conosciuto personalmente Antonello Montante, ricorda che un giorno – è il 2000 voleva fare un’estorsione ai danni di un suo fratello che aveva un negozio di giocattoli. Fu fermato da Salvatore Dario Di Francesco, un boss (che poi si pentirà anche lui e accuserà anche lui Montante) «che si mostrò molto rammaricato delle mie intenzioni, poiché mi disse che i Montante erano vicini alla famiglia di Serradifalco, nel senso che si prestavano ad assumere persone indicate da quella famiglia e non erano pertanto persone da vessare, quanto piuttosto da ‘riguardare’…».
Così Riggio non chiese più la tangente. E precisa: «Le assunzioni di cui mi ha parlato Di Francesco si riferivano ad una fabbrica di Serradifalco, gestita da Antonello Montante, fabbrica dove, per quel che mi fece intendere Di Francesco, lavoravano già persone indicate dalla famiglia mafiosa ». Poi riferisce di un’altra «mediazione », quando un amico di Montante, Massimo Romano, titolare di una catena di supermercati, per aprirne uno a Serradifalco «ha chiesto il permesso ad Arnone attraverso l’intervento dello stesso Montante». Un’ultima annotazione di Riggio: «Quando ho saputo che Montante era diventato un simbolo dell’ antimafia, mi sono stupito assai, sapendo della sua vicinanza a noi».
Il terzo pentito, Carmelo Barbieri: «Uno dei capi della mia famiglia, Carmelo Allegro, mi disse che i Montante erano ‘soggetti amici’..».