Recentemente, il mio caro amico pittore Marcovinicio, un genio energumeno, mi ha mostrato delle fotografie del ‘Che’ poco note. Una rissa di soldati – i traditori – sono intorno al corpo morto, sulla barella, del guerriero. Il ‘Che’ ha lo sguardo allucinato, la mano penzola, la barba è cristica. La fotografia sembra una deposizione, ma al posto di Nicodemo e delle donne, intorno a quel morto ci sono dei vampiri. Quei soldati dal viso poco memorabile, vogliono nutrirsi di quel corpo, diventato leggenda con lampante leggerezza, il corpo della Storia. La Storia, in effetti, per compiersi, si nutre di morti.
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Al netto della barbarie – l’uomo è quello che, tragicamente, antepone una idea alla vita del prossimo, fino a perdere se stesso in quella idea – c’è una tragica e trasognata spavalderia nella velocità con cui il ‘Che’ è stato travisato come una specie di Achille dei perduti, di Mosè dei disperati; uno spavaldo cinismo nello sbandierare il viso, cristico, su t-shirt e discorsi abborracciati su speranze depredate e guerriglie dietro l’angolo. In effetti, l’uomo è agito dal senso di rivolta, dal desiderio di rivalsa, dalla micidiale seduzione per la lotta.
Qualcosa sul ‘Che’, facendo scempio dell’agiografia indotta dagli ideologi – per cui i cadaveri sono oro – emerge da Epistolario de un tiempo. Cartas 1947-1967, pubblicato a Cuba da Ocean Sur “insieme al Cento de Estudios Che Guevara”. Si tratta di una vasta messe dall’epistolario del ‘Che’ – sono 360 pagine – dalle “Lettere della gioventù” alle “Lettere del dirigente politico”, alle ultime, le più interessanti, che seguono l’ultima apparizione pubblica ufficiale, ad Algeri, nel febbraio del 1965. “Si tratta di una selezione esaustiva e rivelatrice, se non altro perché, al di là di alcune lettere assai note, ma mai pubblicate insieme, ve ne sono diverse finora sconosciute, che raccontano la crescita personale, intellettuale e politica di Guevara”, scrive Mauricio Vicent in un lungo articolo, La última despedida del Che Guevara, pubblicato su “El País”.