Conte bisPiù Stato meno mercato: il programma Pd-5S sul lavoro è un tuffo negli anni Settanta

Salario minimo, legge sulla rappresentanza sindacale, taglio del cuneo fiscale, politiche attive centralizzate, contratti a tempo indeterminato: il programma sul lavoro del Conte bis sembra uscito più dagli anni Settanta che da un progetto destinato a realizzarsi nel 2020

Lo scontro su flessibilità e Jobs Act sembrano ormai appartenere a un’altra epoca. Sulle questioni del lavoro, i nuovi alleati di governo Cinque Stelle e Pd sembrano convergere. Soprattutto su due cose: il grande ritorno dello Stato centrale, che si riprende il suo ruolo di garante dei lavoratori a cui sembrava aver abdicato in favore del mercato, e la centralità del lavoro dipendente, a tempo indeterminato ovviamente (con buona pace degli autonomi). Le affinità tra i grillini e il Pd zingarettiano, più spostato a sinistra di quello precedente, si muovono intorno a questi due dogmi. Con un programma che sembra uscito più dagli anni Settanta che da un progetto destinato a realizzarsi nel 2020.

Primo pilastro: salario minimo fissato per legge. L’idea, ora, è quella di andare oltre i 9 euro l’ora proposti dall’attuale ministra Nunzia Catalfo, senza indicare alcuna cifra. La strada, che fa contenti i sindacati, è quella di dare efficacia erga omnes, cioè per tutti i lavoratori, ai contratti collettivi firmati dai sindacati maggiormente rappresentativi. Non solo salario stabilito per legge, quindi, ma anche estensione di tutele, malattia, infortuni, welfare, ferie, maternità e tredicesime ai lavoratori. A cui si aggiunge anche la promessa di una legge sulla parità di genere nelle retribuzioni.

Chissà se tra questi ci saranno anche i famosi rider delle consegne a domicilio, che per più di un anno hanno incassato solo promesse dall’ex ministro del Lavoro Luigi Di Maio. Salvo poi scoprire una certa affinità tra i Cinque Stelle e Deliveroo, uno dei big del settore. Ma questa è un’altra storia.

I nuovi alleati di governo Cinque Stelle e Pd sembrano convergere soprattutto su due cose: il grande ritorno dello Stato centrale e la centralità del lavoro dipendente, a tempo indeterminato ovviamente

Collegata alla legge sul salario minimo, come lo stesso premier Giuseppe Conte ha detto, c’è poi l’approvazione di una legge sulla rappresentanza sindacale e datoriale, necessaria per fare pulizia tra i contratti pirata e individuare i contratti collettivi più rappresentativi e quindi indicativi del salario di ogni settore. Detto in parole povere, i sindacati verrebbero quindi “misurati”, con un riconoscimento da parte dello Stato. Che così entra di fatto anche nelle relazioni industriali, con buona pace dell’autonomia sindacale.

A questi due punti, si aggiunge il cavallo di battaglia grillino: il reddito di cittadinanza. Che il Pd ha tanto criticato, ma che ora intende «migliorare». E se c’è una cosa che Di Maio ha fatto da ministro del Lavoro è stata quella di far risorgere l’Agenzia nazionale delle politiche attive, Anpal, che dopo la sconfitta del Pd del referendum costituzionale, aveva perso gran parte del suo valore, visto che le politiche attive non sono state riaccentrate e sono rimaste regionali. All’Anpal Di Maio ci ha piazzato l’“uomo del reddito di cittadinanza”, Mimmo Parisi, chiamato dal Mississippi in Italia e osannato in ogni convention. E dopo una lotta con le regioni, tramite Anpal sono stati pure assunti i navigator, formalmente “assistenti tecnici” ma che altro non sono che il volano del riaccentramento delle politiche attive del lavoro. I centri per l’impiego, certo, restano sotto il cappello delle Regioni, ma l’Anpal ha ottenuto la regia, con la promessa di creare anche una grande piattaforma per l’incrocio di domanda e offerta di lavoro (e qui potrebbe sorgere il conflitto di interessi di Parisi, ma anche questa è un’altra storia). E l’idea, con il Conte bis, è quella della continuità con il Conte I, visto il piazzamento della dimaiana Nunzia Catalfo al ministero del Lavoro. Lo stesso Parisi dalla Puglia ha confermato: «Anche questo governo è amico e ritengo che andremo avanti come è avvenuto con quello precedente».

Per chiudere il cerchio dello statalismo, si punta tutto sul sacrosanto taglio del cuneo fiscale. Dimenticando però gran parte dell’emisfero del lavoro italiano. Il lavoro dipendente torna a essere l’unico a cui si tende, con un incoraggiamento per quello a tempo indeterminato, visti i bonus collegati al reddito di cittadinanza e gli stretti requisiti del decreto dignità. Che con molta probabilità resterà lì dov’è con tutte le sue storture. Taglio del cuneo fiscale e addio alla flat tax leghista non significano altro che questo: l’eterno ritorno del posto fisso. E i lavoratori autonomi, scomparsi dal programma, torneranno a essere gli invisibili di sempre, tra aliquote folli e tutele carenti. Benvenuti nel passato.

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