Gig EconomyCaporalato digitale, i rider denunciano: “Le aziende sapevano da tempo. E gli stava bene”

Dopo l’apertura di una indagine conoscitiva da parte della Procura di Milano, Deliveroo, Glovo, Uber Eats e Just Eat dichiarano “tolleranza zero” sul caporalato. Ma i rider dicono: “Le aziende sapevano. Avevamo denunciato il fenomeno già a maggio”

Alla fine, dopo anni di scioperi, incidenti mortali e promesse politiche mancate (vedi alla voce Luigi Di Maio), sui rider è arrivata pure l’attenzione della magistratura. La Procura di Milano ha aperto un’indagine conoscitiva sui ciclofattorini che consegnano il cibo a domicilio (ma non solo) per verificare eventuali violazioni delle norme sulla sicurezza del lavoro, sullo sfruttamento dei lavoratori, sulla presenza di fenomeni di caporalato e di immigrati irregolari. E Assodelivery, l’associazione che riunisce le aziende big del settore come Deliveroo, Glovo, Just Eat e Uber Eats, ha subito annunciato «tolleranza zero». Ma i rider non ci stanno. «Le aziende sapevano tutto e facevano finta di niente», dicono dalla organizzazione autonoma dei rider milanesi Deliverance Milano. «In occasione del Primo maggio avevamo inviato una lettera in cui denunciavamo proprio la presenza del caporalato».

Quello delle consegne a domicilio è diventato uno dei primi canali di sbocco lavorativo per gli immigrati che arrivano nelle grandi città. Tra i richiedenti asilo, autorizzati a lavorare dopo 60 giorni dalla presentazione della domanda di protezione, le biciclette di Deliveroo e colleghi sono quasi un passaggio lavorativo obbligato. Tanto da spostarsi dalla provincia al centro di Roma o Milano, proprio puntando a farsi arruolare tra i fattorini del food delivery. Così capita, come ha raccontato il Corriere, che chi ha già una registrazione a una delle piattaforme di food delivery ceda zaino termico e smartphone dotato di app a un connazionale, dietro il pagamento di denaro o meno. Una formula che vale anche per gli stranieri senza documenti in regola, che sono sempre di più, soprattutto dopo il giro di vite del decreto sicurezza. Gli italiani si fanno l’account, si registrano con facilità e poi vendono il “login” ai “rider fantasma”, ha raccontato il Corriere. Lo scorso agosto, dai controlli su 30 rider di Milano, tre stranieri sono stati trovati senza documenti in regola.

Glovo, Deliveroo, Just Eat, Uber Eats sapevano e gli stava bene


Deliverance Milano

Aggirare le regole, insomma, sembra davvero semplice: basta avere la app, una bici e uno zaino e la consegna è fatta. E la situazione era sotto gli occhi delle organizzazioni sindacali autonome che in questi anni si sono formate intorno alla gig economy. «Gli episodi di caporalato si sono amplificati in corrispondenza alla necessità dei lavoratori di riuscire a prenotare le proprie ore nel tentativo di garantirsi un numero sufficiente di consegne», spiegano da Deliverance Milano, «al di là dei capricci dell’algoritmo e dei dispositivi reputazioni e di punteggio come ranking e rating, che spesso negano ore ai rider da una settimana all’altra, senza nessuna apparente spiegazione». Nel tempo, poi, con la crescita della domanda, i rider – come avevamo raccontato – si sono anche distinti in fasce, tra quelli che non superano i 5mila euro lordi l’anno, e quelli che vanno oltre soglia. Superato il limite per considerarsi autonomi, vengono sputati fuori dall’algoritmo, ma poi ri-assorbiti dalle varie cooperative della logistica che collaborano con le aziende madri. In pratica, i fattorini usano le app, ma le aziende come Uber Eats non sono responsabili dei rider, che formalmente lavorano quindi per un’altra società.

Un sistema a scatole cinesi, che in questi anni ha favorito il sommerso. Tra la semplice condivisione dei profili e le vere e proprie forme di caporalato. Tant’è che, in occasione della festa dei lavoratori, Deliverance Milano aveva recapitato a Glovo Italia una “lettera di denuncia contro il caporalato digitale”, portando a conoscenza dell’azienda la presenza di «lavoratori invisibili» tra le fila dei rider con lo zaino giallo. «Sono i lavoratori migranti», si legge, «che vengono costretti a lavorare in nero, senza alcuna tutela, poiché sfruttati tramite il caporalato digitale… Se da una parte la gig economy si vanta di creare nuove opportunità di lavoro, dall’altra non ti permette di accedervi in quanto lavoratore assunto, specialmente se sei un richiedente asilo, scartandoti nel processo di selezione in fase di reclutamento e spacciando questa discriminazione per una mera scelta di policy aziendale. In realtà così facendo si realizzano i presupposti affinché si generi un mercato illegale degli account e dei profili tra lavoratori e caporali, a cui richiedenti asilo e migranti, in attesa di un contratto di lavoro stabile per regolarizzarsi, ricorrono come unica possibilità di emancipazione».

Un mercato illegale degli account e dei profili tra lavoratori e caporali, a cui richiedenti asilo e migranti ricorrono come unica possibilità di emancipazione

La lettera è datata 1 maggio 2019, più di tre mesi fa. «Glovo, Deliveroo, Just Eat, Uber Eats sapevano e gli stava bene», dicono ora da Deliverance Milano. «Anzi, giocavano su questa ambiguità, lasciando che a causa dell’assenza di garanzie che non vogliono offrire ai loro lavoratori, sotto l’egida dei capricci dell’algoritmo che decide chi lavora e quando, non siano date certezze a nessuno dei propri dipendenti, lasciandoli alla mercé di un sistema sommerso, fatto di assenza di diritti, ricatti, ancora più violenti di quanto non accada tutti i giorni, nel caso di un rider cossidetto “regolare”, costretto ad arrabattarsi tra cottimo, rating e ranking».

Da tempo le organizzazioni autonome dei fattorini, da Milano a Bologna, chiedono tutele minime per la categoria dei lavoratori della gig economy, con l’abolizione del cottimo e l’introduzione della paga oraria. Mentre gli incidenti stradali, anche mortali, che hanno coinvolto i fattorini in bici sono saliti all’onore delle cronache nazionali.

In alcune città sono state sottoscritte delle Carte comunali. E anche alcune Regioni, dal Lazio al Piemonte, si sono mosse con leggi proprie. Che però non hanno cambiato di una virgola l’organizzazione del lavoro delle aziende del settore. E le promesse dell’ex ministro del Lavoro Luigi Di Maio, che dei rider aveva fatto uno dei cavalli di battaglia iniziali appena arrivato il governo al grido di “dignità”, sono rimaste solo promesse. Alla fine si è imbastito solo un tavolo con le aziende al ministero dello Sviluppo economico, finito nel dimenticatoio del tritacarne grillino. Tra le minacce delle aziende di lasciare l’Italia e le “affinità” emerse tra la capofila Deliveroo e la Casaleggio Associati, proprietaria di Rousseau. La società inglese compariva infatti tra i finanziatori del rapporto sull’e-commerce della Casaleggio. E a seguire la comunicazione di Deliveroo lo scorso aprile era stata scelta la EprComunicazione, dove a capo dell’ufficio stampa c’era Laura Fraccaro, sorella del neonominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro.

Alla fine, il governo gialloverde ormai agli sgoccioli, ad agosto ha inserito i rider nel “decreto salva imprese”, tra le crisi aziendali da risolvere e i piani di stabilizzazione dei precari della pa, concedendo qualche tutela in più ma senza individuare un compenso minimo. E lasciando così scontenti fattorini e sindacati. Ora, la prossima settimana approderà finalmente in Senato il decreto sui rider messo a punto dal precedente governo dopo un confronto di un anno. Ma l’orizzonte è tutt’altro che chiaro. E ora che la magistratura ha acceso il faro sul settore, da Deliverance Milano ora avvertono: «Non sarà la logica della guerra tra poveri e della “caccia alle streghe” nei confronti degli ultimi che ci permetterà di trovare una soluzione a questo problema».

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club