Milioni di euro e altrettante connessioni a una piattaforma televisiva pirata, illegale e a pagamento, ci dicono due cose.
L’intrattenimento non è più un semplice sfizio, ma un vero e proprio alimento. Le serie e i film di successo scandiscono le giornate degli spettatori, alla ricerca di un ritmo da imprimere alla propria intimità, di un’impronta digitale che rinvigorisca sentimenti dimentichi e sepolti, di un cuscino per la noia. La suddivisione di una storia in centinaia di puntate spinge gli abbonati a una dipendenza che per mesi, spesso per anni, 50 minuti al giorno, li rapisce. Invaghiti e invischiati nell’impero dell’intrattenimento, infine cedono e si abbonano. Quelli che possono. La notizia non è la pirateria, antica quanto il web, ma la comunione di reato e pagamento . Consci del valore dei contenuti cui vogliono accedere, molti si sono rassegnati a cercarli gratuitamente su qualche sito pirata, e hanno accettato di finanziare quelli illegali, in base al peso del portafoglio e alla lunghezza delle braccine.
La somma di tutti i canoni supera i centinaia di euro al mese: troppi da sborsare ma anche troppo a cui rinunciare. Così nascono le tv pirata.
La somma di tutti i canoni supera le centinaia di euro al mese: troppi da sborsare ma anche troppo a cui rinunciare. Così nascono le tv pirata, indicatori di una nevrosi da tempo libero, con un impatto economico-sociale da non sottovalutare.
Come in tutti i sintomi c’è una verità e quindi una soluzione. Pagare 15 euro al mese e rischiarne 25mila di multa e 3 anni di carcere per assistere a una partita di calcio o a un film, manda un chiaro segnale a Netflix, DAZN, Sky e Mediaset Premium: siete indispensabili ma inaccessibili. E siete quasi tutte in difficoltà: calo di sottoscrizioni per Netflix dopo l’innalzamento della tariffa mensile; partite in regalo ai clienti abbonati da più di tre anni a SkyCalcio e Skysport per DAZN; il volo di Icaro di Mediaset, appeso a una sentenza che ne decreterà la gloria o il funerale. Senza contare Amazon Prime Video e la futura guerra dello streaming fra il topolino di Neuschwanstein e la mela della Silicon Valley, la cui collisione potrebbe travolgere tutti gli attori minori.
Dunque perché non venirsi incontro?
E se il futuro fosse un agglomerato di emittenti soggette ad un unico canone e presenti su di un’unica piattaforma, i cui ricavi vengano ridistribuiti alle singole società in base alle visualizzazioni registrate?
E se il futuro fosse un agglomerato di emittenti soggette ad un unico canone e presenti su di un’unica piattaforma, i cui ricavi vengano ridistribuiti alle singole società in base alle visualizzazioni registrate? Una sorta di “spotifizzazione” dell’intrattenimento, in cui a fronte di un singolo pagamento si abbia libero accesso a qualunque contenuto multimediale. Un’unica piazza e tanti strilloni che si contendono clienti affamati e selettivi. Piuttosto che condannarsi a uno stillicidio reciproco, in attesa di essere fagocitate dal pesce più grosso, le emittenti potrebbero affrontarsi a viso aperto nella stessa arena, esponendosi a un maggiore rischio e quindi utile.
Non ci compete disquisire sulla fattibilità economica della questione, alla cui discussione invitiamo gli esperti del settore, ma sul messaggio che 700mila reati, dopo tanti anni da destinatari, hanno deciso di girare ai mittenti.