Erano partiti per rifare l’impero, rischiano di finire con l’Unione divisa. Rischia di essere questo il destino della Brexit a meno di tre settimane dalla data del 31 ottobre, il «Brexit day» salvo un’intesa tra Londra e Bruxelles per un secondo rinvio. C’è poco tempo, forse troppo poco per raggiungere un accordo per l’uscita del Regno Unito dall’Ue entro il consiglio europeo della prossima settimana. Ieri (venerdì) gli ambasciatori dei 27 Paesi Ue hanno dato incarico al caponegoziatore Michel Barnier di avviare «intensi negoziati finali» sulla base delle proposte presentate dal governo britannico. Il tutto dopo l’inaspettata apertura fatta il giorno precedente dal primo ministro irlandese Leo Varadkar al termine di un incontro privato con il premier britannico Boris Johnson. Al termine dell’incontro al Thornton Manor, una location per matrimoni a Wirral, nel Nord dell’Inghilterra, i due hanno detto che «intravedono il sentiero di un possibile accordo» in extremis sulla Brexit.
Si è aperto uno spiraglio, come dimostra il rally della sterlina e come ha spiegato il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk: «Ho ricevuto segnali promettenti dal premier irlandese che un accordo è ancora possibile», ha dichiarato. Ma attenzione, avverte Tusk: «Naturalmente, non esiste alcuna garanzia di successo e il tempo è praticamente scaduto. Ma anche la minima possibilità deve essere usata».
«È risaputo che al Regno Unito costa di più mantenere l’Irlanda del Nord che stare nell’Unione europea»
C’è ottimismo a Londra, Bruxelles e Dublino. Ma non è tutto fatto, anzi: la delegazione britannica a Wirral è apparsa dopo l’incontro assai meno contenta rispetto alla squadra irlandese. Il pensiero di Londra, che non ha mai parlato a differenza di Dublino di «svolta», è a Belfast. Quei sorrisi dopo le «nozze» a sorpresa tra Johnson e Varadkar non sono infatti piaciuti al Dup, il partito nordirlandese di destra protestante che ha già rappresentato un ostacolo per il precedessore di Boris Johnson a Downing Street, cioè Theresa May. La Brexit si gioca sulle due grandi C: customs e consent, dogane e consenso.
Senza dimenticare che l’Unione europea si è già espressa contro la soluzione proposta da Johnson sulle dogane, cioè l’implementazione di non ben specificate nuove tecnologie per i controlli di frontiera sull’isola d’Irlanda, guardiamo la seconda questione. Tutto ruota attorno al veto che di fatto Johnson ha dato al Dup sugli accordi permettendo al partito di Belfast di imporre un confine duro tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda cancellando con una sola votazione gli accordi proposti da Boris Johnson a Dublino. E qualsiasi alternativa (al vaglio c’è la «doppia maggioranza» per tenere dentro sia gli unionisti che i nazionalisti) rischia di allontanare ancor di più il Dup, che a Westminster è stato spesso fondamentale per la maggioranza relativa del Partito conservatore e lo sarebbe anche nel momento in cui il deal arrivasse alla Camera dei Comuni. Senza i protestanti nordirlandesi, infatti, difficilmente Johnson potrebbe veder approvata la sua proposta per la Brexit rischiando di dover chiedere a Bruxelles, dopo mesi a promettere che «il 31 ottobre si esce», un nuovo rinvio.
Mentre qualcuno a Downing Street sta pensando di rispolverare la soluzione «ibrida» elaborata dall’esperto Raoul Ruparel per l’ex premier Theresa May (una sorta di doppio binario nel Mare d’Irlanda), altri stanno attaccando il Dup. È il caso di David Green, direttore del think tank Civitas e uomo molto vicino alla campagna Vote Leave. Sul quotidiano conservatore euroscettico per eccellenza, il Telegraph, ha scritto che «l’Irlanda del Nord è stata a lungo una pietra al collo per il resto del Regno Unito». Se Belfast impedisse all’Unione di «riprenderci la nostra indipendenza» per Green «sarebbe una tragedia storica». Poi la bomba: «È risaputo che al Regno Unito costa di più mantenere l’Irlanda del Nord che stare nell’Unione europea». Ecco i numeri: «Ogni anno paghiamo 7,8 miliardi di sterline per avere accesso a un mercato di circa 450 milioni di persone e ne paghiamo 8,8 a 1,8 milioni di persone nell’Irlanda del Nord».
È proprio da questioni interne (come le differenze tra centro e periferia, il ritorno dei regionalismi ma anche l’eterna lotta tra correnti nel Partito conservatore) che nasce la Brexit, più che dal puro euroscetticismo. Ma quel progetto sta svanendo
Colpiscono due cose di questo editoriale: i toni duri, durissimi e il successo che ha riscosso nel mondo conservatore. Lo stesso che prima, quando c’era Theresa May, per prendere in mano il dossier Brexit soffiava sul fuoco del Dup e sulla volontà dei nordirlandesi a non essere trattati da britannici di serie B (quindi con un regime post Brexit diverso dal resto del Regno).
Johnson e i suoi avevano promesso il ritorno dell’impero, un’immagine forte per dare un nuovo patriottismo ai cittadini e distrarli da difficoltà del Paese come le disuguaglianze e, per fare solo un esempio, un sistema sanitario nazionale al collasso. È proprio da questioni interne (come le differenze tra centro e periferia, il ritorno dei regionalismi ma anche l’eterna lotta tra correnti nel Partito conservatore) che nasce la Brexit, più che dal puro euroscetticismo. Ma quel progetto sta svanendo. In Scozia è tornato a farsi sentire il fronte per l’indipendenza, il Galles è rientrato pienamente nell’orbita laburista dopo un timido avvicinamento alla destra e ora tocca all’Irlanda del Nord. Johnson non può permettersi di non avere un accordo il prossimo 31 ottobre: gli ultimi sondaggi dicono che potrebbe perdere la maggioranza alle prossime elezioni in caso di «no deal» o di nuovo rinvio. Così i suoi hanno deciso di picconare l’Irlanda del Nord. Ma facendo questo non soltanto hanno sepolto i sogni neoimperialistici, tradito l’alleato e messo già a rischio l’eventuale passaggio parlamentare dell’accordo. Hanno anche tradito il nome completo del loro partito: Partito conservatore e unionista.