Qualche anno fa i dischi live servivano a imprimere e fissare nella memoria la potenza e la resa dal vivo di band cui solo pochi fortunati potevano assistere. Lo sappiamo bene: non c’erano così tanti festival in giro per il mondo; i concerti non erano la parte fondamentale del business; gli interessati non potevano essere informati in tempo reale sugli spostamenti di tutti i proprio gruppi preferiti e, anche fosse stato, non ci sarebbe stata molta possibilità tra assenza di voli low cost e altre noie burocratiche. Poi, certo, ci sono dischi live entrati a pieno diritto nella storia della musica (oltre ai monumentali “primi rudimenti” degli anni Settanta come Live at Leeds degli Who e Made in Japan dei Deep Purple, onnipresenti nelle classifiche delle riviste ‘mainstream’ sui dischi fondamentali della Storia del Rock) e altri che sono semplicemente bellissimi da ascoltare (tra gli ultimi, ormai di qualche anno fa, Kicking Television dei Wilco e Live in Japan — ehm… — dei Primal Scream); ma oggi che in tempo reale possiamo accedere a tutti i live del mondo da Instagram o da YouTube, possiamo recuperare qualsiasi concerto, frequentiamo almeno un festival l’anno in giro per l’Europa (qualcuno anche in giro per il mondo), e che i concerti sono diventati il primo motore del moribondo business discografico, ha ancora senso pubblicare un disco live?
I Cure rispondono a questa domanda nell’unico modo che conoscono: facendo un po’ quello che vogliono ribandendo che sì, ha senso, perché l’occasione è speciale. Sono passati quarant’anni, infatti, da quando Robert Smith e soci hanno iniziato, tra alterne fortune, uno dei percorsi più intensi e caratteristici della musica pop ben raccolti, raccontati, rappresentati — e ovviamente soprattutto suonati — nelle due ore e un quarto di Anniversary: 1978-2018. Live in Hyde Park, London (Lost Images). I Cure infatti non sono una semplice band. Ridurli a quel feticcio dark tutto rossetto e pettinature con la dinamite significa non cogliere prima di tutto la straordinarietà di una vicenda musicale che, iniziata nei territori post-punk inglesi con Killing an Arab e confluita poi nel pop ambizioso e venato di ambientazioni gotiche di Disintegration (disco che quest’anno di anni ne ha compiuti trenta), ha creato prima di tutto una sequenza di canzoni straordinarie e singoli in grado di raccontare sogni, disincanti e paure di ben più di una generazione; ma soprattutto un senso di comunità e di famigliarità che va oltre la semplice fandom. I Cure, infatti, sono una di quelle poche band rimaste in grado di costruire un rapporto empatico così intenso con il proprio pubblico da diventare una sorta di “casa comune”. Succede sempre meno, dacché sta venendo sempre più a mancare la dimensione epica/identitaria della musica, ma per alcuni questo sentimento è rimasto.
Non si vive di rendita, non si suona in modo stanco e annoiato ma si cerca di interpretare al meglio il senso che pezzi come Boys Don’t Cry, Inbetween Days, Just Like Heaven e Friday I’m In Love possono avere per persone che le hanno vissute come inni autobiografici lungo un mondo che è cambiato.
Quello che stupisce (ma fino a un certo punto, se si conosce un minimo la band) è l’energia che Robert Smith e Simon Gallup — uno che insieme a Peter Hook dei Joy Division ha inventato un modo di suonare e interpretare il ruolo del basso nella musica pop — mettono dopo quarant’anni dentro la performance. Non si vive di rendita, non si suona in modo stanco e annoiato (cosa che spesso capita soprattutto quando porti in giro da anni un carrozzone sempre più simile allo stereotipo di te stesso, destinato a replicare le aspettative del pubblico più che una reale esigenza) ma si cerca di interpretare al meglio il senso che pezzi come Boys Don’t Cry, Inbetween Days, Just Like Heaven e Friday I’m In Love possono avere per persone che le hanno vissute come inni autobiografici lungo un mondo che è cambiato.
«Sono stati quarant’anni fantastici, adesso prepariamoci ai prossimi!» dice un divertito Robert Smith alla fine di Killing an Arab (posta simbolicamente in chiusura), e non a caso è notizia recente che i Cure pubblicheranno non uno, non due ma TRE nuovi dischi. Per uno che ha passato gli ultimi anni a annunciare lo scioglimento della band dopo ogni nuova canzone, un segnale diverso. Stai a vedere che i prossimi quarant’anni avranno ancora parecchie sorprese? Chi lo sa. Per ora resta la certezza che Anniversary: 1978-2018 è sì una celebrazione, sì una festa, ma soprattutto un disco di grandissima musica e grandissima energia. Difficile che nei prossimi anni si possano aspettare nuove rivoluzioni copernicane da parte della band, ma di questi tempi sapere che un mostro sacro non si compiace (troppo) e cerca di mettersi in discussione è comunque una notizia di cui essere contenti. Soprattutto se poi continuano a suonare Friday I’m In Love anche nei giorni sbagliati.