Il premio al tempo dei socialEcco perché bisogna leggere i due Nobel per la Letteratura, Olga Tokarczuk e Peter Handke

Due scrittori europei, una polacca e uno austriaco. Un uomo e una donna. Hanno osato con la forma, cercando una purezza quasi distaccata. Ma il filo rosso che lega due figure del genere non è evidente. L’avventura, stavolta, è nel cercarlo

No, non me l’ero neppure segnato in agenda, eppure, come ogni anno (tranne lo scorso, per le note vicende che l’hanno fatto saltare), due ore prima dell’annuncio del Nobel per la letteratura ho cominciato a fremere come se non avessi pensato ad altro per mesi.

Tanto, questa mattinata nell’Internet avrei potuto scriverla prima che cominciasse: le battute su Roth e Murakami eterni nominati e bidonati, quelle sulla prostata di Roth e gli scandali sessuali dell’Accademia, quelle sugli sconosciuti dai nomi impronunciabili e sugli scrittori troppo famosi dai nomi sputtanati, è tutto già visto, ogni anno da che esistono i social e forse anche prima, solo che non lo sapevamo, al massimo ci si ritrovava direttamente in libreria davanti a una fascetta cresciuta nella notte.

Però va bene, stiamo connessi e vediamo che succede, che spettacolo produrrà l’Accademia stavolta: orde di indignati perché vincono le canzonette (Dylan), orde di giubilanti perché vincono i racconti (Munro), orde di nostalgici perché vincono i libri della nostra giovinezza (Ishiguro), orde e comunque orde? Oppure: camminate silenziose in notturni francesi (Modiano), ragazze cattive che appaiono e scompaiono (Vargas Llosa), piccoli editori che esultano perché loro e solo loro (fino a quel momento) hanno la perla in catalogo (Műller) – chissà, chissà. L’attesa è il tempo delle preghiere.

Una preghiera che fino a dieci anni fa non avremmo concepito: speriamo che sulla tratta ferroviaria non ci siano troppe gallerie, santa Maria della connessione prega per noi. Una preghiera che fino a dieci anni fa gli organizzatori di eventi culturali avrebbero avuto la spudoratezza di pensare ma non quella di scrivere e condividere: magari il vincitore è un ospite della nostra rassegna, meglio ancora se già confermato, Dio dei Festival prega per noi. Una preghiera che gli editori hanno sempre pensato e condiviso fortissimo: speriamo di avere almeno un titolo in catalogo, esisterà una divinità pagana delle acquisizioni? E siccome tutto quest’anno è raddoppiato perché i Nobel da assegnare sono due, raddoppiano speranze, preghiere e battute. Finché la porta non si apre.

All’una in punto i nomi di Olga Tokarczuk e Peter Handke sono ovunque, I vagabondi è uno dei libri più discussi dell’anno e Il cielo sopra Berlino uno dei film più noti di tutti i tempi. Per chi si diverte a pensarci su, si tratta di individuare il non detto dietro le formule generiche dell’Accademia ma anche di tirar fuori un filo rosso che leghi le due scelte, un uomo e una donna, entrambi europei, lei nata in Polonia e lui in Carinzia, lei che con il suo incedere scompone la parola “viaggio” e lui che in Infelicità senza desideri codifica l’eliminazione del pathos dal racconto della morte, del dolore. Se sono due, dovranno funzionare come una coppia?

C’è sempre un momento in cui sai che devi leggere quel libro e nessun altro, fino a un attimo prima non c’era posto per lui e dopo non hai vissuto per nient’altro

Cercare quel filo rosso di comunanza impossibile significa consegnarsi a un’acrobazia forzata, tuttavia è folle e quindi inevitabile, persino divertente, ritrovarsi a ipotizzare: lo sperimentalismo di prime persone irregolari (osate e sarete premiati, attraversate la marginalità e il disagio e sarete riconosciuti), una certa seduttiva purezza nel distacco e nella compromissione del raccontare, perfino il disegno divinatorio di una “k” nel cognome. Ma tra quei due c’è davvero quel qualcosa in comune? Si arranca, si sorride, si abbandona il campo e se ne esce solo con un altro grande classico: ripercorrere la storia di come i libri dei premiati hanno o non hanno incrociato la nostra esistenza, tutte le sfumature possibili dal “mai sentito” al “fondamentale”. Per me I vagabondi di Tokarczuk sarà sempre la voce di un altro scrittore polacco, Wlodek Goldkorn, che prima di tutti mi avverte: devi leggerlo. Saggio sul luogo tranquillo di Handke è invece la mia voce che, spersa in una libreria romana, mi impone di non lasciarlo lì, per via del titolo e della copertina (parla di bagni pubblici). C’è sempre un momento in cui sai che devi leggere quel libro e nessun altro, fino a un attimo prima non c’era posto per lui e dopo non hai vissuto per nient’altro.

Poi, passata l’euforia, cominciate le questioni (Handke in passato aveva decretato la morte del romanzo e auspicato la fine dell’assegnazione dei Nobel), giustamente acclamate le grandi storie di due autori che in tempi e modi diversi hanno aggiunto qualcosa di nuovo alla parola “romanzo”, si può andar via da quella parola verso il teatro, la poesia, i libri illustrati. Nel catalogo di uno dei migliori editori italiani di albi, Topipittori, c’è L’anima smarrita, un racconto di Olga Tokarczuk con le immagini di Joanna Concejo; è un libro da leggere e guardare anche con i bambini, parla di solitudine e di cosa succede e come si rimedia, se si rimedia, quando una vita si svuota.

E siccome gli albi sono i parenti più prossimi delle poesie, e i versi delle immagini, anche Canto alla durata di Peter Handke pubblicato da Einaudi è una ricerca di identità nella mutevolezza, nella resistenza e nella trasformazione del quotidiano. Sono quasi sempre i versi anomali, i racconti brevi, gli appunti nascosti, le lettere private a fare grande lo scrittore, solide colonne invisibili per ciò che, al contrario, tutti possono vedere. Forse i fili rossi sono lì, brillanti e multiformi, a unire, oltre al caso, due importanti e diversissime poetiche: è un’illusione e non li troveremo per davvero, ma quest’anno l’avventura potrebbe stare anche nel cercarli.

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