Non sa scrivere. Ha mentito. Ha plagiato. È stato condannato. È ipocrita. È filoisraeliano. Usa il vittimismo come arma. Non è davvero una vittima. Comunque se l’è cercata. Con i suoi scritti (scritti male, ripetiamo) ha screditato un paese, una regione, un Paese (con la “P” maiuscola). Ha contribuito a rendere la camorra una cosa “cool”. Pensa di essere Pasolini, ma non lo è. Il successo mediatico gli ha dato alla testa (cit. Walter Siti). Parla di cose che non sa. È ossessionato dai migranti. È ossessionato da Salvini. Vive in un attico a Manhattan, ma è solo un appartamento a Brooklyn (cit., velenosa, sempre di Walter Siti). Preferisce i migranti agli italiani. È comunista. Si è imborghesito. È di destra: il suo mito è Ernst Jünger. Ha una visione riduttiva della letteratura. È un eroe di carta. Non è un eroe. È invecchiato. È banale. Ha perso smalto. È pelato.
Ecco un condensato delle accuse che, negli anni, sono state rivolte contro Roberto Saviano, l’autore di Gomorra (prima del libro, nel 2006, e poi del film e serie tv) che da anni sotto scorta in seguito alle minacce dei boss di Casal di Principe.
Lo scrittore Walter Siti gli contesta l’idea, propugnata in qualche modo da Saviano, che la vera letteratura possa essere solo quella di impegno civile e che il resto sia solo entertainment. Non ci sta Siti (posizione condivisibile) e allora la Verità, giornale sovranista guidato da Maurizio Belpietro, è ben felice di dargli spazio. Del resto, per il centrodestra Saviano è un nemico consolidato: dal Giornale a Libero nessuno gli ha mai perdonato l’anti-berlusconismo militante, la partecipazione al “salotto” di Fabio Fazio, la semplificazione della questione camorrista (in ordine decrescente di importanza – per loro). Gli attacchi giornalieri all’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini e le posizioni nette a favore delle Ong, poi, gli hanno alienato anche il mondo della Lega, parte del Movimento Cinque Stelle ei minnitiani (se mai sono esistiti). Lo detesta anche il Foglio, un giornale solitamente controcorrente, non meno tenero di Saviano su Salvini e certo non simpatetico con agli anti israeliani: l’accusa massima è di essere «banale».
Saviano è un mistero per il mondo letterario, editoriale, intellettuale
Saviano viene bastonato anche a sinistra: ci pensano, da buoni ultimi, anche i compagni del Bolscevico, organo del partito marxista-leninista italiano che trovano appoggio (ironico) sul Fatto Quotidiano. Sono offesi perché lo scrittore, in una intervista comparsa sul Venerdì di Repubblica, si era dimenticato di citarli tra le sue frequentazioni giovanili. Un rapporto «non breve e pure intenso, durato oltre un anno», che risale a un’epoca in cui Saviano era di tendenza «guevarista/trozkista». Anche lui, denunciano, è cambiato, e ora forse si vergogna di questo passato di fronte «alla classe dominante borghese». Prima di loro, comunque, dal Manifesto arrivavano le bordate del sociologo Alessandro Dal Lago, che lo ebbe a definire, in un libro fortunato, eroe di carta.
È il mistero del personaggio Saviano, corpo estraneo in un mondo letterario /editoriale / intellettuale abituato ad altri parametri. Lo è per la sua biografia letteraria: non è Pasolini e non è nemmeno Salman Rushdie. È difficile trovare una via di mezzo: come scrittore nasce con Gomorra, certo – un romanzo metà fiction metà realtà con una volontà di denuncia che appare autentica – ma prende, a causa della vita sotto scorta e della posizione inequivocabile di vittima, una via diversa. Quasi a compensare i limiti letterari, si trasforma in un’icona di lotta contro le mafie e poi, sempre più in alto, contro le ingiustizie e limitazioni imposte ai migranti.
Ed è un corpo estraneo anche per la sua ampiezza editoriale: Saviano, come ha fatto notare la professoressa Giuliana Benvenuti nel libro Il brand Gomorra, è diventato (o si è ridotto a essere?) il perno attono al quale ruota tutta la produzione del marchio: prima il libro, poi il film, poi la serie tv, gli spettacoli teatrali e i nuovi romanzi. Con la sua autorevolezza (e in questo senso è, con esattezza filologica, autore) ha acquisito la funzione di garante. Certifica, vidima, autorizza. Ruolo ben lontano dall’immagine eroica dello scrittore engagé ereditata dal Novecento, forte della sola macchina per scrivere e del carisma di chi ha ragione. Intorno a lui è cresciuto, efficace ma forse più prosaico, un meccanismo fatto di costi, profitti, marketing, di project management.
Cosa rimane allora del primo Saviano? Cosa rimane di quella battaglia di denuncia? Forse poco. O, forse, una delle più grandi macchine editoriali su più canali che ci siano in Italia, che fa della lotta alla criminalità il suo messaggio centrale ed è costruita su uno scrittore che da 13 anni è costretto a vivere sotto scorta. C’è chi ci vede il tradimento – e anche per questo odia, antipatizza, critica. E chi, invece, il miracolo.