Calcio e regimeIl saluto militare dei calciatori turchi è orrendo, ma i responsabili sono gli scagnozzi di Erdogan

Condanna unanime del gesto, ma anche critiche ai professionisti scesi in campo. Ma erano liberi o sono stati costretti? Le conseguenze per chi dice di no sono l’esilio o il processo. Ecco perché salutano tutti

ALAIN JOCARD / AFP

Le apparenze ingannano. Lunedì sera allo Stade de France i giocatori della Nazionale turca di calcio hanno festeggiato il pareggio coi campioni del mondo francesi con il saluto militare. La seconda volta nel giro di quattro giorni, visto che appena lo scorso venerdì si erano già esibiti nello stesso gesto dopo l’1-0 interno contro l’Albania. Una storia che dice tanto, ma che sotto nasconde altrettanto. Il perché lo facciano è ormai noto a tutti: la Nazionale sostiene l’operazione militare “Primavera di pace” contro i Curdi, voluta da Erdogan al confine con la Siria. Un sostegno che indigna tanti, ma che deve porre qualche domanda: sicuri che oggi in Turchia sia possibile non essere d’accordo con il presidente? Sicuri che gli sportivi, solitamente una delle categorie più libere di esprimere le proprie opinioni, abbiano tutta questa libertà di poter formulare il proprio pensiero? Perdonerete lo spoiler ma la risposta sembra chiara: no. Oggi in Turchia lo sport è pura e semplice politica.

Perché è vero che lo sport turco sembra compattamente a favore di Erdogan, e probabilmente molti sportivi sostengono convintamente il governo, ma è altrettanto vero che molti sono costretti a tacere, dovendo fare buon viso a cattivo gioco

Lo dimostra l’İstanbul Başakşehir, un club turco di calcio. La sua ascesa nell’élite della Süper Lig turca, l’equivalente della nostra serie A, mostra la potenza del regime di Erdogan. Grazie alle sovvenzioni del governo, la squadra, di proprietà del Ministero turco per la Gioventù e lo Sport, è cresciuta in maniera esponenziale negli ultimi anni. E i risultati, come l’ottimo secondo posto nell’ultima stagione e la finale di coppa di Turchia, ne sono la diretta conseguenza. Più di Robinho, Arda Turan o Gokhan Inler, il merito va attribuito al presidente in persona, tifoso del Başakşehir, che nel 2014 ha inaugurato lo stadio del club con una tripletta in una partita amichevole. Senza di lui il club non esisterebbe e molti giovani talentuosi, come l’attaccante della Roma Cengiz Ünder, famoso per le sue esultanze con la mano tesa, probabilmente non sarebbero dove sono. Né tantomeno le polemiche.

Lo sport però è anche questo, che piaccia o no. Chissà se i media mondiali conoscono il presidente della Federcalcio turca, Yildrim Demiloren. Un uomo d’affari, operante nel ramo energetico e schierato pubblicamente dalla parte del governo, che nel 2017 fece un pubblico endorsement a favore del referendum costituzionale che ampliava a dismisura i poteri di Erdogan. Non si fermò qui però: Demiloren sospese anche l’arbitro Ilker Sahin, perché si era espresso contro il volere di Ankara. La democrazia nello sport, questa sconosciuta. Ovviamente la questione non è soltanto calcistica. Pochi giorni fa al mondiale di Stoccarda il ginnasta Ibrahim Colak ha salutato il suo oro e la sua nazione esattamente come i calciatori turchi e lo stesso ha fatto la pugile Bursenaz Surmeneli dopo aver vinto la finale welter contro la cinese Liu Wang. La situazione sembra dunque più estesa di quel che può sembrare e bisogna fare attenzione alle semplificazioni. Perché è vero che lo sport turco sembra compattamente a favore di Erdogan, e probabilmente molti sportivi sostengono convintamente il governo, ma è altrettanto vero che molti sono costretti a tacere, dovendo fare buon viso a cattivo gioco.

È la paura che muove tutto. Paura di perdere tutto, di finire in prigione con il rischio di essere accusati di cospirazione terroristica e rimanerci per chissà quanto, la paura di vedere i propri amici e i propri cari presenti nel Paese soffrire per colpe non loro

Quello che è successo ad alcuni personaggi del mondo dello sport lo fa capire bene. È la paura che muove tutto. Paura di perdere tutto, di finire in prigione con il rischio di essere accusati di cospirazione terroristica e rimanerci per chissà quanto, la paura di vedere i propri amici e i propri cari presenti nel Paese soffrire per colpe non loro. Gli esempi sono tanti. Il primo è il mitico bomber della Nazionale turca Hakan Şükür, più di 300 gol all’attivo in carriera con le maglie di Galatasaray, Inter e Torino. Da sostenitore del presidente Erdogan, l’ex stella è passata rapidamente a oppositore del regime. La colpa? Essere legato al predicatore turco Fethullah Gülen, dal 2000 autoesiliatosi a Philadelphia e sostenitore di una versione più laicista dello Stato, opposta a quella di Erdogan. Il golpe del 2016 è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: le accuse a Gülen di essere il mandante del colpo di Stato ha portato automaticamente Şükür a essere accusato di fiancheggiamento. Inevitabile la fuga, che lo ha costretto a svolgere un’attività forse per lui impensabile: vendere caffè in un piccolo bar di Palo Alto, in California. Il suo sogno sarebbe quello di riabbracciare i suoi genitori, costretti anche al carcere dal regime e che oggi riesce a salutare solo su Facetime, ma la vera speranza è quella di vedersi rinnovare il visto per rimanere negli Stati Uniti, che scade nel 2020. Altrimenti sarebbe costretto a tornare in Turchia.

Non dimentichiamolo la prossima volta che giudicheremo con faciloneria estrema i nazionali turchi che ossequiano il loro padrone di Ankara. Non possiamo chiedere anche a loro di fare lo stesso senza sapere quali saranno le conseguenze

Un problema di cui soffre anche Enes Kanter, centro dei Boston Celtics. Ma non è il solo. Sulla testa del cestista spicca un mandato di cattura internazionale per terrorismo, con tanto di denuncia delle autorità turche all’Interpol di localizzazione e arresto. La colpa è la stessa di Şükür, essere cresciuto alla corte di Gülen. Nonostante la vita di Kanter sia ormai negli Stati Uniti, il rischio di essere arrestato o eliminato da spie del governo turco lo costringe a vivere quasi come un recluso, con un’attenzione maniacale ad ogni possibile spostamento. Nel 2017 la Turchia cercò di arrestarlo in Indonesia e in quel caso fu solo l’intervento provvidenziale del governo statunitense e della NBA a salvarlo dal ritorno in patria. Che nonostante tutto ha cercato in ogni modo di rendergli la vita difficile, togliendogli la cittadinanza e costringendo il padre ad abiurarlo. Lui per tutta risposta ha definito Erdogan “l’Hitler del nostro secolo”. Nonostante le aggressioni, i mandati di cattura e il fatto di non poter vedere la propria famiglia, la voce di Kanter è forse più forte e più viva che mai.

E poi ci sarebbero anche altri casi. Sicuramente meno fortunati, come gli ex nazionali Ugur Boral, Ömer Catkic, Zafer Biryol e Bekir Irtegün processati in Turchia perché accusati di terrorismo. Rischiano fino a vent’anni di prigione. Come Şükür e Kanter anche loro possono servire da esempio forte per capire cosa vuol dire fare opposizione in Turchia. Non dimentichiamolo la prossima volta che giudicheremo con faciloneria estrema i nazionali turchi che ossequiano il loro padrone di Ankara. Non possiamo chiedere anche a loro di fare lo stesso senza sapere quali saranno le conseguenze.

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