La prima impressione è quella sbagliata: se si pensa a Emily Dickinson, la celebre poetessa americana del XIX secolo, viene in mente una casa di campagna, da cui non esce mai, lunghi pomeriggi passati a cuocere dolci, accudire gattini e scrutare il mondo fuori dalla finestra. Una vita avventurosa soltanto sulle carte. Dove gli slanci sono solo poetici e il rapporto con il mondo, cui lei scrive lettere che non spedisce, o cui dedica poesie che non pubblica, appare sbilanciato. Non contraccambiato, almeno.
Ecco, questa impressione quasi di gattara rassegnata, o di poetessa che trova consolazione nella costrizione stessa è sbagliata. Lo dicono da tempo gli esperti, e lo ricorda al pubblico anche la nuova serie di Apple Tv, “Dickinson”, appunto, che riprende il personaggio, lo fa interpretare a Hailee Stenfield e lo cala in una realtà anacronistica (contemporanea) e funambolica, fatta di provocazioni sessuali, sessioni di twerking, giri in carrozza con Morte (Wiz Khalifa) e chiare espressioni queer. Coraggioso? Sì. Sbagliato? No.
«Collocarla in un altro periodo è un artificio che ho scelto per sottolineare una cosa importante: non è stata capita allora, la capiamo soltanto adesso», spiega Alena Smith, tra i creatori della serie, al New York Times. Emily Dickinson non era una donna vittoriana eclusa e contenuta: il suo lato nascosto – meglio, tenuto nascosto di proposito – mostra episodi di ribellione, slanci passionali erotici diretti alla cognata, atti mostruosi (l’annegamento dei gattini in una tinozza di salamoia è uno dei più eclatanti), insofferenza nei confronti di un sistema che, nella mente degli autori della serie, ha un nome chiaro: patriarcato. Secondo l’autrice è proprio questo il motivo che l’ha spinta a non pubblicare i suoi versi, a tenerli per sé, a rimanere – se non incompiuta – inespressa.
Dal 1886 al 1890, anno in cui esce la prima raccolta di poesie, viene cancellato ogni tratto deviante della personalità di Emily Dickinson
Che l’immagine reale di Emily Dickinson fosse stata manipolata è noto da decenni. Subito dopo la sua morte un comitato di familiari – la sorella Lavinia, la cognata Susan e poi l’amante del fratello – riprende in mano i suoi scritti, ricopiati per bene e conservati in cartellette cucite a mano, e mette in atto un’operazione di ripulitura spietata. Dal 1886 al 1890, anno in cui esce la prima raccolta di poesie, viene normalizzata la punteggiatura (quella originale, innovativa e personalissima, viene fatta sparire), i versi sono divisi in strofe e a ogni lirica viene dato un titolo. Ma soprattutto, viene cancellato ogni tratto deviante della personalità di Emily Dickinson. Fuori le allusioni erotiche, addio posizioni non ortodosse, tanto meno quelle sovversive ed esuberanti. Addirittura, per addolcire (e femminilizzare) la sua immagine spinosa, procedono a dare una sistemata anche al suo ritratto, il celebre dagherrotipo che appare quasi su ogni edizione delle sue poesie, aggiungendo una collana e allentando i capelli.
Una falsificazione, certo, che è stata appoggiata negli anni da un coro di critici (quasi tutti uomini) che hanno avvalorato la tesi della zitella tranquilla. È solo dagli anni ’70 che autori e critici hanno ricominciato a renderle ciò che era suo, riconoscendole posizioni più complesse e una personalità viva. È ormai riconosciuta, per esempio, senza eccezione, la sua attrazione sentimentale nei confronti di Susan – ma ci sono ancora alcune ritrosie nell’utilizzo della parola “omosessuale”, dato che la Dickinson avrebbe avuto relazioni anche con uomini. Per questo la serie si incentra su una poetessa dalla sessualità fluida (quindi moderna) ma lascia aperte altre possibilità. Perché è sulle interpretazioni, sempre nuove e attuali, che si cela uno dei segreti (e requisiti) dell’essere un classico.