É passato poco più di un anno da quando l’ex Ministra della Difesa Elisabetta Trenta ha annunciato su Facebook di aver sbloccato la missione italiana in Niger per il controllo dei flussi migratori. Il decreto missioni militari prevedeva un ridimensionamento della presenza di truppe in Iraq e Afghanistan e l’invio di soldati italiani in Libia e nel Sahel (regione composta dai paesi del G5 Sahel: Mali, Niger, Burkina Faso, Mauritania e Ciad).
La missione in Niger MISIN, già approvata a inizio 2018, era rimasta in stallo a causa del governo nigerino, molto probabilmente per pressioni francesi. Ma l’incontro ufficiale tra il premier Giuseppe Conte e il presidente Issoufou l’estate scorsa ha contribuito ad accelerare il dispiegamento dei militari nostrani e l’invio di attrezzatura in Niger.
Questo cambio di rotta geografica e strategica da Medio Oriente a Sahel è stato un passo importante non solo per l’Italia ma anche per altri paesi europei (Regno Unito, Germania, Spagna e Danimarca in particolare), per l’Unione Europea stessa, la quale ha aumentato i fondi destinati a stabilizzare la regione, e per gli Stati Uniti, che hanno da poco completato la base droni 201 ad Agadez, nel deserto nigerino.
La missione italiana prevede un contingente di 470 militari, mezzi e attrezzature. Questo non è niente rispetto alla presenza francese, che conta circa 4mila truppe sparse sul territorio e organizzate solo intorno alle basi militari francesi
La missione italiana prevede un contingente di 470 militari, mezzi e attrezzature. Questo non è niente rispetto alla presenza francese, che conta circa 4mila truppe sparse sul territorio e organizzate non solo intorno alle basi militari francesi ma anche all’interno delle cosiddette Plateforme Desert Relais, vere e proprie basi nel deserto per le forze speciali francesi.
Il cambio d’interesse strategico si deve non soltanto allo stato di emergenza migratoria dichiarato da Italia e altri paesi del Mediterraneo nel 2015, ma anche a uno spostamento di gruppi terroristi da Siria e Iraq a Nord Africa e Sahel e alla caduta del regime di Gheddafi: tutti questi fattori hanno contribuito rendere l’area più instabile. Anche tenuto conto di questo, è importante precisare che l’assembramento di forze militari straniere sul territorio (compresa la forza di peacekeeping delle nazioni unite MINUSMA) somiglia più a un groviglio casuale, un evento al quale tutti vogliono prendere parte senza sapere bene perché. Ma il presenzialismo, il dire ‘io c’ero’ non è una strategia.
L’ulteriore invio di truppe senza una strategia precisa, coordinata ed efficiente potrebbe anzi recare danno alla presenza italiana per una serie di motivi. Innanzitutto, la necessità di fare affidamento sui governi locali, i quali sono spesso corrotti e criticati da una grande fetta di popolazione potrebbe irrobustire le voci critiche alla presenza militare europea, e di rimando a quella italiana. Inoltre una debole comprensione delle dinamiche locali potrebbe spingere a commettere errori evitabili: le forze politiche e militari italiane dovrebbero prevedere uno studio attento, trasparente e inclusivo, la consultazione di esperti sia locali che nostrani per evitare di creare problemi di parzialità, ad esempio finendo per favorire un gruppo etnico rispetto ad un altro, come si è notato nel caso della presenza britannica in Mali.
Al contrario della Francia, l’Italia non ha mai avuto un interesse strategico, storico e militare in Sahel, e dunque non ne conosce le dinamiche politiche, religiose, e culturali
Al contrario della Francia, l’Italia non ha mai avuto un interesse strategico, storico e militare in Sahel, e dunque non ne conosce le dinamiche politiche, religiose, e culturali. Inoltre, un ulteriore invio di truppe europee senza un mandato chiaramente differente rispetto a quello delle forze francesi correrebbe il rischio di associare la presenza italiana a quella francese, la quale ha una reputazione tutt’altro che lusinghiera nella regione, legata principalmente alla colonizzazione e allo sfruttamento delle risorse naturali.
Essere equiparati alla missione francese potrebbe causare più danni che benefici. Inoltre, l’aperta ammissione da parte dell’ex Ministra Trenta dell’invio di truppe per il «controllo dei flussi migratori» ha delle ricadute sulla società civile e i media locali. Nel corso di varie interviste in Niger lo scorso luglio, è chiaramente emerso come organizzazioni di società civile e i giornalisti lamentino il fatto che dietro il rispettabile obiettivo di facciata di eliminazione dei gruppi terroristici e di stabilizzazione della regione, l’interesse europeo (e italiano in particolar modo) sia quello di chiudere il paese in una prigione a cielo aperto.
Le varie iniziative da parte dell’Organizzazione per le Migrazione OIM e dell’Organizzazione per la Cooperazione tedesca GIZ per contenere lo spostamento di individui e chiudere i confini ha contribuito a diminuire i flussi migratori ma ha reso le tratte migratorie molto più pericolose e costose. Il numero di persone che perdono la vita nel Mediterraneo è certamente diminuito, ma questo dato non tiene in considerazione il numero di vittime nel deserto del Sahara. Inoltre, i coprifuoco imposti in alcune zone quali Diffa e Tillabery, senza prevedere delle misure di emergenza per il sostentamento delle attività economiche di pescatori e di chi si sposta di notte, hanno provocato ulteriori critiche da parte delle comunità locali.
Appare evidente l’interesse italiano a essere presente nella regione e questo cambio di rotta strategica non ha valenza necessariamente negativa. Quello che è negativo è l’assenza di una direzione strategica, guidata da una consapevolezza dei rischi che sia completa e che consideri le dinamiche locali, soprattutto l’opinione di Parlamenti e società civile, e comprensiva di una strategia di fuga. Le potenziali esternalità negative, la mancata comprensione di errori concreti svolti in altre missioni militari, e la mancata presa di coscienza da parte dell’autorità politica italiana di lezioni apprese in altri teatri di guerra, rischiano di peggiorare la situazione e trasformare il Sahel in un nuovo Afghanistan.