Beati i critici di qualunque altra nazionalità, poiché essi non sono costretti ad accorgersi che L’ufficiale e la spia, il film di Roman Polanski sull’affaire Dreyfus, non parla d’un caso di (in)giustizia militare di centocinquant’anni fa, né parla delle vicende giudiziarie di Roman Polanski: L’ufficiale e la spia parla dell’Intellettuale Romano. Prima di proseguire, occorrerà intendersi sul profilo dell’Intellettuale Romano. Non occorre che egli sia romano: può da lì essersene andato dopo esserci nato, essersi lì traferito pur mantenendo la dizione d’origine e mal sopportando le usanze locali, può persino andarci sporadicamente e solo se proprio deve (come non capirlo). Tuttavia, l’Intellettuale Romano cura la propria figura professionale abbastanza da essere sempre nel giusto, dentro le cose o almeno in prossimità di esse, con un posizionamento spendibile su tutte le buone cause, pronto a firmare le petizioni giuste, ad aderire ai cancelletti correttamente identitari (nel 2019 l’Intellettuale Romano gli appelli non li firma: li hashtagga), e a conservare il proprio posto là dove si cambia magari non il mondo ma di certo il resoconto dei diritti d’autore: tra gli Amici della Domenica. L’Intellettuale Romano, già mirabilmente sintetizzato nell’invettiva con cui Vittorio Gassman chiudeva il film di Ettore Scola La terrazza con la definizione di “dolente erudito”, è sì “intelligentissimo”, ma non nell’accezione frutterolucentiniana (quella dei gratuitamente stronzi). Al contrario: l’Intellettuale Romano è stronzo malgré soi. Lui saprebbe, lui potrebbe, lui vorrebbe far del bene, ma purtroppo le sue migliori intenzioni vengono ostacolate dallo stato delle cose, dal logorio del pacchetto dati, e da certe reazioni a catena che a Lettere Classiche mica gli avevano spiegato.
Nella scena iniziale del film di Polanski c’è la cosa più simile a una gogna che riesca a immaginare un pubblico moderno che le pubbliche umiliazioni le ha viste solo nel Trono di spade, in quella scena in cui la regina veniva fatta camminare nuda tra i popolani mentre le urlavano «Vergogna» (naturalmente il pubblico moderno le pubbliche umiliazioni le guarda tutti i giorni, senza vederle: ma a questo arriviamo tra poco). A Dreyfus strappano le mostrine, degradandolo dal suo rango di ufficiale. Egli rivendica la propria innocenza, e noi già sappiamo che dice la verità (è un film storico, sebbene venga distribuito in un’epoca capace di accusare di spoiler chi dica che il Titanic poi affonda). Quindi soffriamo doppiamente quando la folla fuori dalle cancellate invoca punizioni esemplari contro l’ebreo colpevole, e gli Intellettuali Romani lo guardano dal bordo del cortile, pur non partecipando attivamente alla cagnara, e ridono sotto i baffi, perché insomma se l’è cercata, o comunque ormai è andata, la sua è una causa persa, vorrai mica che mi sporchi la fedina morale difendendolo.
Naturalmente oggi è tutto diverso, sono passati centoventicinque anni e non strappiamo i gradi in pubblico alla gente, non facciamo quasi nessuna delle cosacce che facevano allora, prima che diventassimo tutti tanto più civili (a un certo punto, dopo che Émile Zola ha pubblicato il suo J’accuse…!, ci sono delle rivolte per strada, e qualcuno scrive su una vetrina «Mort aux juifs», e mentre la macchina da presa inquadra la scritta vengono in mente due cose: quanto sia impensabile oggi che un articolo di giornale provochi tanto scalpore; e quanto sia improbabile che un imbrattatore di vetrine o di commenti su Facebook oggi non faccia errori ortografici). Oggi è tutto diverso, e l’Intellettuale Romano è perlopiù già passato da un caso Dreyfus: egli è il generale che dice al colonnello Picquart, che s’intestardisce a indagare per scagionare Dreyfus a rischio della propria fedina morale, «Non voglio un altro caso Dreyfus». Mica si può creare un secondo scandalo per sanare il primo.
L’Intellettuale Romano, nel 2019, ha perlopiù già chiesto la testa di qualcuno colpevole d’un tweet sgradevole, d’un’idea non condivisibile, d’un posizionamento non spendibile
L’Intellettuale Romano, nel 2019, ha perlopiù già chiesto la testa di qualcuno colpevole d’un tweet sgradevole, d’un’idea non condivisibile, d’un posizionamento non spendibile (ma anche solo d’una battutaccia senza l’emoticon sdrammatizzante: questo è un articolo che non fa i nomi per non cadere nella controgogna, ma uno va fatto, è quello di Makkox, autore televisivo di Propaganda su La7 e vignettista assai à la page; Makkox sui social scrive cose d’una ferocia che nessun Intellettuale Romano si permetterebbe, e alla fine d’ogni sua battutaccia c’è una faccetta sorridente; non è, come accade perlopiù con gli utilizzatori di faccette, perché non sa veicolare un tono; è perché una faccetta può salvarti la vita, in un mondo che ha deciso che essere tranchant è inaccettabile ma essere passivoaggressivo va benone).
Ci è già passato, dicevamo. Solo che una mattina si è svegliato, l’Intellettuale Romano, e ha trovato l’invasor sotto forma di gogna per un amico, un sodale, uno con cui è solito andare a cena, o le mogli vanno a yoga insieme, o gli ha scritto una prefazione, o saranno insieme a un festival. Quello è il giorno in cui l’Intellettuale Romano ritiene di doverci spiegare che la gogna è una brutta cosa. Di solito lo fa leggendo tardivamente Jon Ronson (autore del principale testo di decodificazione dei dreyfusismi del nostro tempo, I giustizieri della rete). Solo che uno dei principali esempi analizzati da Ronson è la storia di Justine Sacco, la ragazza che scrisse su Twitter una battuta sui razzisti che (lo vedi cosa succede a non mettere le faccette) venne presa da quei militari francesi di centoventicinque anni fa che sono gli iscritti ai social nostri coevi per una battuta razzista. La Sacco spense il telefono e partì per l’Africa, era il 2013 e sui voli intercontinentali non vigeva ancora il diritto inalienabile al wifi; quando atterrò, non aveva più un lavoro, ma soprattutto non aveva una reputazione presentabile (che nel 2019 è peggio che non avere i gradi militari due secoli fa: se il primo risultato googlando il tuo nome sarà sempre che sei razzista, hai perso il tuo posto non nell’esercito, ma nel consesso civile).
L’Intellettuale Romano si moltiplica come i mostriciattoli bagnati dopo la mezzanotte nei film degli anni Ottanta, ci sono sempre nuove nidiate di cuccioli ignari del meccanismo
Che l’Intellettuale Romano non abbia capito il punto lo si vede da molti dettagli, il primo dei quali è che, nel ricostruire la vicenda Sacco, non resiste a posizionarsi dalla parte dei buoni con una qualche variazione su «certo, quel tweet razzista era inaccettabile». Non se ne esce, è come quella scena processuale in cui, dopo aver accusato Dreyfus d’essere autore d’una lettera, quando il grafologo nota che la scrittura non è la sua ma anzi è uguale a quella d’un altro, argomentano che certo, ha scritto diversamente apposta per incastrare quell’altro qualora fosse stato scoperto. «Mi avete detto che sono colpevole perché quella è la mia grafia. E anche perché non lo è», conclude mestamente Alfred Dreyfus. Benvenuto su Twitter, Alfred! Quindi adesso hanno capito? Alcuni, ma l’Intellettuale Romano si moltiplica come i mostriciattoli bagnati dopo la mezzanotte nei film degli anni Ottanta, ci sono sempre nuove nidiate di cuccioli (cinquantenni, ma non cavilliamo) ignari del meccanismo. Quello, oppure ci fanno. Citando ancora da L’ufficiale e la spia: «Ritiene che la sua testimonianza sia stata conclusiva?» «Di sicuro è stata spettacolare».
La settimana scorsa uno di questi pulcini d’Intellettuale Romano smaniosi di stare al centro della scena ha esortato, su un quotidiano, al boicottaggio d’un’azienda di surgelati da lui accusata di razzismo e altre turpitudini: l’azienda era colpevole d’essere stata visitata da Salvini che s’era fatto una foto lì. Il giorno dopo, nel rispondere a una lettera dell’azienda che con ammirevole continenza raccontava le proprie correttezze e opere di bene (invece di limitarsi a chiedere «Ma sei scemo?»), il pulcino dimostrava d’avere già la tempra dell’IR adulto (essere un Intellettuale Romano significa non essere mai disposto a dire «Mi sono comportato da coglione perché non so stare al mondo, il che è piuttosto grave visto che ho una certa età»).
Dopo essersi congratulato per la civiltà della risposta (che, detto da uno che non solo ha invitato al boicottaggio ma lo ha pure fatto senza basi, è un po’ come se un hooligan vi facesse sentiti complimenti per come state a tavola), il nostro eroe si è meravigliato perché il tweet in cui invitava al boicottaggio (sì, c’era anche un articolo, ma quelli non fanno gran danno: mica sono i tempi di Zola, chi li legge più) aveva «causato una piccola reazione a catena». Ma tu pensa. Chiedi la testa di qualcuno, e i social ti vengono dietro. Chi l’avrebbe detto, sono luoghi riflessivi quasi quanto l’esercito francese di fine Ottocento. Ma niente paura, una smentita nella pagina delle lettere basterà di certo a redimere l’isteria della folla aizzata in 280 caratteri. E chissà come sarà accurata l’ortografia dei messaggi di insulti che arriveranno ai Dreyfus di giornata.