Ancora giovani praghesi contro il regime. 1968, 1989, 2019… si accendono e muoiono le speranze nel cielo di Praga, scandendo un ritmo lento della sua millenaria storia. E così sabato scorso sono scese in piazza oltre duecentomila persone, tantissimi giovani. Contro il presidente della repubblica Miloš Zeman e soprattutto contro il premier Andrej Babiš. Quest’ultimo, conservatore, e accusato di conflitto di interesse tra la sua carica istituzionale e quella di titolare della Agrofert, una holding agro-alimentare che opera anche nelle costruzioni, nella chimica, nella distribuzione, l’industria del legname e i mass-media. Un conservatore, ma anche un ex comunista (non ci deve sorprendere).
Uno di quelli caduti in disgrazia con la Rivoluzione di velluto del 1989, quando a Praga il comunismo cadde in pochi giorni come una pera marcita. Tutto cambiò con la velocità che solo le Rivoluzioni con la R maiuscola sanno infondere al corso del tempo. Fu definita “di velluto”: senza ghigliottine, ma fu certamente una Rivoluzione.
In questi giorni tanti rievocano il 1989. Personalmente, io ho i ricordi di Praga. All’epoca giovane cronista radiofonico, nascondendo le cassette Basf – erano C90, oggi roba da museo – con le canzoni di Bruce Springsteen (nel caso all’aeroporto me ne avessero chiesto conto) – arrivai nella capitale cecoslovacca in pieno tumulto e me ne tornai a Roma con le medesime cassette registrate con i rumori dei cortei, le voci dei giovani, degli intellettuali – Vaclav Havel! – nelle tasche del giaccone, senza più patemi. Censura non ce n’era più e i poliziotti si facevano finalmente i fatti loro.
La Primavera di novembre fu una cosa bellissima. Ero stato un mese prima a Budapest per seguire il congresso del partito comunista, il POSU, nel quale si era deciso di far cadere la O, che stava per operaio, diventando così “partito socialista ungherese”. Dopo qualche giorno cadde il Muro – ero rientrato a Roma, accidenti, lì c’era andato un altro collega – e proposi di farmi mandare in Cecoslovacchia, che sarebbe stato teatro di grandi avvenimenti. Non era una previsione difficile.
L’austera Praga certe mattine sembrava la gaia Londra, o la entusiasmante Parigi in bianco e nero del Maggio ’68
Faceva un freddo cane, a Praga (tranne che nella stanza del mio alberghetto economico, dove il termosifone andava a palla). Era pieno di giornalisti di tutto il mondo, stavamo più o meno tutti nei vari hotel di piazza San Venceslao, dove sostavano in permanenza centinaia di giovani, che il giorno diventavano migliaia, decine di migliaia. Tutta Praga in piazza: non c’erano più vere e proprie manifestazioni, era una manifestazione permanente. Tutte facce allegre. L’austera Praga certe mattine sembrava la gaia Londra, o la entusiasmante Parigi in bianco e nero del Maggio ’68.
Me ne andavo in giro con il grosso registratore tutto il giorno: si poteva intervistare chiunque. In un caffè, un tardo pomeriggio gelido, ci trovammo con altri colleghi. Fra loro, c’era Pietro Buttitta, del giornale radio Rai (mi pare l’allora Gr1) che era un uomo molto spiritoso e un grande conoscitore di politica internazionale, era stato inviato ai quattro angoli del mondo, il quale all’improvviso mi fece: «Vai a intervistare quell’anziano signore, parla italiano, è uno dei pochi che sa tutto». Andai, ed effettivamente quello parlava italiano meglio di me e mi spiegò quello che stava avvenendo, insistendo parecchio sulla continuità ideale fra il ’68 praghese e gli eventi di quei giorni.
Tornai da Buttitta, che mi sorprese: «Hai intervistato Jiri Hajek, il maestro di Dubcek». Un grande personaggio! Uno degli artefici della Primavera di Praga, anche ministro, poi ovviamente emarginato dal regime comunista di Husak. Dubcek era una leggenda. Aveva già arringato la folla di piazza San Venceslao il primo giorno della velvet revolution, parlò il giorno dopo in un enorme comizio alla spianata di Letna, davanti allo stadio (dove si è manifestato sabato scorso, d’altronde).
Ci andai a piedi in un tragitto che mi parve lunghissimo – e lo era – che feci insieme a Giovanni Berlinguer, il fratello di Enrico, era un dirigente di primo piano del Pci. Praga la conosceva benissimo, ci aveva vissuto in anni giovanili credo come rappresentante degli studenti comunisti italiani nell’organizzazione mondiale degli studenti comunisti, una di quelle strutture filosovietiche tipiche degli anni Cinquanta. Così che Berlinguer mi fece spesso in quei giorni da guida per la città vecchia, il ghetto ebraico, Mala Strana e le altre meraviglie dell’allora capitale cecoslovacca.
E ora tornava, Dubcek, troppo vecchio per prendere lui la guida del paese ma in qualche modo “padre” della nuova, più radicale, rottura, benedendo la transizione che ora si apriva.
Tornando a quel comizio di Dubcek, rimasi impressionato per il gigantesco consenso attorno a lui e per la lucidità del suo messaggio. Aveva ben compreso che si stava voltando – e per sempre – una pagina della storia del suo paese, quel paese che lui si era illuso di poter cambiare “dal di dentro” ricevendone in cambio l’umiliazione, l’esilio, la povertà. Aveva fatto il boscaiolo. Ma non si era piegato. E ora tornava, Dubcek, troppo vecchio per prendere lui la guida del paese ma in qualche modo “padre” della nuova, più radicale, rottura, benedendo la transizione che ora si apriva.
Era questa l’aspettativa di osservatori, politici: una transizione dal vecchio regime alla democrazia. Il partito comunista cecoslovacco annaspava. Si cercavano facce nuove. I segretari del partito si susseguivano. Quando in quei giorni fu nominato un tal Urbanek, uno meno compromesso col regime, chiesi a Giovanni Berlinguer : «Tu lo sai cosa pensa, questo Urbanek?». E mi rispose, con la sua cadenza sarda: «Innanzi tutto, bisogna vedere “se” pensa». Aveva ragione a non dargli troppo credito, ai comunisti “buoni”. Quel tale sparì dalla Storia.
Una sera andai alla “Lanterna magica”, la mitica sede di intellettuali, riformisti, artisti, eretici vari, e con altri colleghi intervistammo un bell’uomo in maglione nero a collo alto e pantaloni neri, non immaginavo certo di avere a che fare con il prossimo presidente, con uno degli uomini più positivi del ventesimo secolo, il drammaturgo Vaclav Havel.
Ricordo che qualche giornalista francese ne aveva letto qualche testo, i francesi ne sanno sempre più degli altri… Sapevo che era il capo dell’opposizione al regime comunista, un personaggio di sicuro avvenire, già in quei giorni uno degli uomini-chiave della transizione. Io stesso gli feci una domanda, registrai la risposta che “girai” alla redazione di Roma come si faceva allora, appoggiando la cornetta del telefono al registratore. Spiegai che era un uomo importante. Ma non sapevo nemmeno io quanto lo fosse, quanto lo sarebbe diventato, e che sarebbe stato per sempre l’uomo più importante che avessi mai intervistato.
Uscii dalla “Lanterna Magica” molto tardi e in piazza san Venceslao c’era ancora tanta gente. La Rivoluzione, la guardavo, era lì, nella nebbia festosa.