Il New Yorker ha pubblicato un discorso di Vladimir Nabokov, Man and Things (https://www.newyorker.com/books/page-turner/man-and-things,), sulla necessità umana di antropomorfizzare le cose del mondo. Perché mai abbiamo deciso di dotare i musi delle auto proprio di due fanali, tanti quanti sono i nostri occhi?
«Le mutande che si asciugano in un vento vivace si lanciano in una danza idiota, ma alquanto umana» dice Nabokov. «Un orologio le cui lancette segnano le due meno dieci ricorda una faccia con i baffi dell’imperatore Guglielmo II. (…) Tra il vetro arrotondato di una lampadina e la testa calva di un filosofo colma di luminoso pensiero, c’è una somiglianza rassicurante».
Già, quella somiglianza ci rassicura. Allora il nostro bisogno di utilitarie a due fanali è allo stesso tempo poetico e violento: per non impazzire al cospetto dell’altro da sé, di un universo estraneo e mostruoso quanto un tizio mascherato che di punto in bianco ci rivolge contro il fucile in una banca, l’uomo è condannato alla metafora. Inventa senza sosta la realtà che lo circonda: la inventa nel senso latino del termine, cioè trova nei pezzi di mondo una forma, una funzione, una simpatia, un’anima. Là dove, dice Nabokov, «un gabbiano che sorvola un portasigarette dimenticato su una spiaggia non può distinguerlo da una pietra, dalla sabbia, da un frammento di alga».
Trasformiamo corpi opachi in superfici riflettenti. L’uomo è nella sua essenza un costruttore di specchi fin dai tempi delle caverne. Sulla cui pietra bipedi stilizzati circondavano mandrie di bovini e dove una mano lasciava la sua orma rossastra così che uno specchio di roccia rimandasse all’osservatore il marchio di fabbrica della nostra specie, il pollice opponibile, per un tempo che il proprietario di quella mano, verosimilmente a digiuno di teorie come Big Crunch e tettonica a zolle, doveva immaginare infinito.
«L’uomo è fatto a somiglianza di Dio; una cosa è fatta a somiglianza dell’uomo» continua Nabokov. «Quando un uomo produce una cosa il suo Dio finisce per assomigliare alla cosa. Quindi, si arriva al cerchio completo: cosa, Dio, uomo, cosa – e un cerchio completo per la mente è un piacere».
Leggendolo oggi, questo delizioso scritto dell’autore di Lolita suona alle nostre orecchie dolorosamente ingenuo. Solo pochi decenni fa le persone si specchiavano in un mondo le cui proprietà riflettenti non superavano quelle di un foglio di alluminio. Serviva molta immaginazione per vedere un volto in quella macchia argentata vagamente ovale. Se è vero che il mito portante della nostra era è quello di Narciso, un ragazzo condannato a riflettersi per tutta la Storia in stagni di tempera e poi di pixel, allora dobbiamo avere fatto strada nella nostra carriera da costruttori di specchi.
Lo spazio tridimensionale del ‘900 era una bozza di quello virtuale di oggi, una rudimentale versione dei social e di Google: dove invece gli oggetti che incontriamo non sono tanto sassi, orologi e lampadine, quanto figure umane e parole umane
Lo spazio tridimensionale del ‘900 era una bozza di quello virtuale di oggi, una rudimentale versione dei social e di Google: dove invece gli oggetti che incontriamo non sono tanto sassi, orologi e lampadine, quanto figure umane e parole umane. Caverne in cui sono sparite stalattiti, stalagmiti e pareti di roccia, e sono rimasti soltanto i nostri disegni a fluttuare nel vuoto.
Forse con Internet abbiamo finalmente soddisfatto il nostro bisogno di sentirci a casa in una galassia fredda e spietata. Navigando nel web, quello scoglio non ricorda un naso: è un naso. Quell’onda non ricorda un accento: è un accento. Millenni ad ascoltare i lamenti del vento e le risate delle cicale, ed ecco che oggi nel mondo che per lo più abitiamo quotidianamente tutte le folate si allungano nello spazio virtuale in codice alfanumerico.
Nelle nostre foto e nei nostri post, le cose non sono quasi mai protagoniste così come poteva esserlo l’orologio baffuto dalla prospettiva di Nabokov: sono soltanto sfondi. Allo stesso modo, nella maggioranza dei nostri post, perfino i commenti sull’attualità non sono che fondali studiati per mettere in risalto la nostra arguzia, la nostra presenza nel qui e ora, la nostra forma individuale. L’io non è più disposto a mascherarsi, a incarnarsi di volta in volta in lampadine e mutande: vuole apparire nudo sul palco, tale e quale a come mamma l’ha fatto. O, per meglio dire, tale e quale a come l’io ha fatto se stesso.
Quando un uomo produce un selfie il suo io finisce per assomigliare all’idea che quell’io ha di se stesso. Quindi, si arriva al cerchio completo: io, io, io, io – e un cerchio completo per la mente è un piacere.
Quando un uomo produce un selfie il suo io finisce per assomigliare all’idea che quell’io ha di se stesso. Quindi, si arriva al cerchio completo: io, io, io, io – e un cerchio completo per la mente è un piacere.
Nabokov notava come un dozzinale maialino di porcellana che aveva vinto al tirassegno in una fiera di paese, dopo che l’ebbe abbandonato in un albergo, l’avesse accompagnato nella memoria per tutta la vita. «Sono irrimediabilmente innamorato di questo maiale di porcellana. Sono sopraffatto da una tenerezza insopportabile, leggermente sciocca, quando ci penso, vinto, disprezzato e abbandonato».
Nessuno vuole più abbandonare i maialini negli hotel. Gli archivi e i wall dei social network sono depositi di maiali di porcellana. Chissà che, condannandoli al cestino, il nulla camuffato con vesti innocue e domestiche, un giorno non finiamo per rimpiangerli. Questo pensiamo. Così non proveremo mai quella tenerezza insopportabile di cui parla lo scrittore. Tutto per noi deve essere sopportabile, controllabile, anatomico: quanto una palpebra o un dito. Anche in quel deposito di pixel, ciò che segretamente accumuliamo non sono tuttavia i maialini: sono i commenti, i like, le reazioni umane rispetto all’apparizione delle cose. Di nuovo, riempiamo immensi magazzini di specchi.
Per Nabokov bisognava lasciare, a un certo punto, che la natura si riappropriasse delle cose: un flusso rosso di formiche prende subito a correre sul calcio di un fucile abbandonato nella giungla e le erbacce spaccano i muri di una casa vuota ritrasformandola in un semplice blocco di pietra. «E meglio che giacere come una mummia in un sarcofago dipinto nello schizzo di un museo, è molto più piacevole, e in qualche modo più onesto, decomporsi nella terra in cui, a loro volta, giocattoli e linotipi, stuzzicadenti e automobili faranno ritorno».
Ma adesso l’inarrestabile entropia del creato si può riappropriare delle cose di Internet solo per mezzo di un titanico bug, di un blackout totale, di una qualche apocalittica perturbazione dello spazio virtuale. Altrimenti quelle cose continueranno a rispecchiare il nostro naso pure quando su di loro non si affaccerà che il buio.