Strano, eh?Il reddito di cittadinanza è un fallimento: date al Sud infrastrutture, investimenti e zone economiche speciali

Secondo Svimez, l’impatto della misura assistenzialista del M5S è stato nullo. L'economista Emanuele Felice: «Invece di richiamare persone in cerca di occupazione, le sta allontanando dal mercato del lavoro»

Afp

Il Sud è già entrato in recessione e l’impatto del reddito di cittadinanza è stato nullo. «Invece di richiamare persone in cerca di occupazione, le sta allontanando dal mercato del lavoro». È implacabile il risultato dell’ultimo rapporto Svimez, presentato lunedì alla Camera. Le regioni del Centro-Nord, dal Lazio in su, crescono dello 0,3%; dall’Abruzzo in giù scendono dello 0,2%. Il Mezzogiorno è caduto nella trappola demografica: poche nascite, giovani che se ne vanno, popolazione che invecchia. Dal 2000 a oggi due milioni di abitanti se ne sono già andati. La metà sono giovani fino a 34 anni, quasi un quinto laureati. E negli ultimi 15 anni i piccoli comuni montani e collinari con meno di cinquemila abitanti hanno perso 250mila abitanti. Più o meno come se fosse scomparsa tutta la popolazione di Messina. Anche così si spiega perché nel 2065 il Sud perderà altri 5 milioni di persone. Le regioni meridionali sono agli ultimi posti in Europa per tasso di attività e occupazione femminile. Addirittura nel 2018 sono state superate da Macedonia, Guyane francese, Ceuta e Melilla. E dalla crisi economica non si sono più riprese. Rispetto al 2008 ci sono 295mila occupati in meno, nello stesso periodo nel resto d’Italia sono aumentati di 437mila unità. Al Sud cresce solo l’occupazione di bassa qualità, precaria, atipica. E un lavoratore su quattro è a rischio povertà. A questo ritmo nel giro di mezzo secolo il Pil complessivo del Meridione calerà del 40%. Passano gli anni, ma nonostante banche speciali, ministeri ad hoc e fiumi di denaro pubblici, il Sud Italia rimane la più grande area in ritardo di sviluppo di tutta l’Europa occidentale.

Negli ultimi dieci anni sono crollati gli investimenti pubblici per poca fiducia e troppa burocrazia. Negli ultimi venti, la politica economica nazionale ha ignorato il Sud. E quando se n’è occupata lo ha fatto con un provvedimento disorganico applicato in modo frettoloso: il reddito di cittadinanza. Quando fu approvato, il capo politico del Movimento Cinque Stelle, Luigi Di Maio, disse: «Abbiamo abolito la povertà». Il provvedimento fu pensato soprattutto per rilanciare la domanda di consumi al Sud. Secondo il governo gialloverde avrebbe fatto crescere il Pil italiano almeno dell’1,5% grazie al mistico effetto moltiplicatore. Non è successo. E secondo il rapporto ha alimentato lo stereotipo «Nord-produttivo contro un Sud-assistito». Lo ha ammesso anche il senatore M5S Gianluigi Paragone in un’intervista a Lucia Annunziata su Rai3: «Abbiamo sbagliato a incardinarlo con grande frenesia. Non l’abbiamo saputo costruire perché abbiamo accelerato troppo».

Secondo Emanuele Felice, professore ordinario di Politica economica nell’Università di Pescara e autore di Il Sud, l’Italia L’Europa (Il Mulino), il reddito di cittadinanza «per contrastare la povertà è una misura rispettabile. Per rilanciare la crescita del Sud è fondamentalmente inutile. Si tratta di una misura assistenziale rispetto al fallimento di una vera politica di rilancio del Mezzogiorno».Ma perché l’Italia è così divisa in due? «Il Sud non ha mai accettato in maniera piena la sfida della modernità dello sviluppo economico. È stato modernizzato solo dall’alto, senza modificare la struttura sociale. Ma con la crisi economica degli anni Settanta, lo stato italiano non è stato più in grado di modernizzare il Sud che si è fermato. Il problema è che se il Mezzogiorno è lasciato a se stesso, si spopola».

Con la crisi economica degli anni Settanta, lo stato italiano non è stato più in grado di modernizzare il Sud che si è fermato. Il problema è che se il Mezzogiorno è lasciato a se stesso, si spopola


Emanuele Felice, professore di politica economica

Il problema è anche culturale. «Ci sono due mentalità. Una del Centro Nord che considera irrecuperabile il Mezzogiorno e quindi spinge per investire tutte le risorse nella vera locomotiva d’Italia. Quando hanno fatto negli anni duemila, soprattutto i governi guidati da Silvio Berlusconi con Giulio Tremonti all’Economia. Una politica che si è rivelata fallimentare perché l’Italia ha continuato a declinare tutta in quel periodo. Il nord senza il Sud si riduce a un’appendice del mondo germanico», spiega Felice. «L’altra mentalità è tipica del Sud. È una risposta al fallimento dello Stato nazionale nel modernizzare il Mezzogiorno che autoassolve le classi dirigenti meridionali. è la scusa più scomoda dire “è colpa degli altri”. Ricorrendo a falsi storici e comunque a eventi remoti di più di 150 anni fa.

Questi i problemi. E la soluzione? «La prima cosa da fare per rilanciare il Sud è prendere atto che si tratta di una emergenza nazionale. Non deve più essere una questione di pochi intimi», spiega Riccardo Maria Monti, manager e imprenditore napoletano, presidente di Italferr e tesoriere della Robert Kennedy Foundation. «La classe dirigente meridionale ha le sue colpe ma bisogna sanare almeno alcune ingiustizie che il Sud ha subito negli ultimi 25 anni. E la prima è quella degli investimenti infrastrutturali che sono stati fatti solo nel centro e nord Italia» Come spiega Monti nel suo libro Sud, perché no? (Laterza), negli ultimi 20 anni gli investimenti infrastrutturali sono stati talmente pochi da aver creato un circolo vizioso fatto di poco sviluppo economico, poco “traffico”, meno popolazione, e di conseguenza minor necessità delle stesse infrastrutture. E invece servirebbe l’Alta velocità Napoli-Bari, il raddoppio della Palermo-Catania, migliori collegamenti ferroviari ai porti di Gioia Tauro e Taranto. Sulla carta dal 2017 ci sarebbe il piano “Connettere l’Italia: fabbisogni e progetti infrastrutturali” con 100 miliardi per almeno 100 interventi da realizzare in gran parte al Sud in dieci anni.

Per questo il rapporto Svimez chiede di applicare finalmente la clausola del 34%, o ovvero destinare almeno un terzo degli investimenti pubblici nel Sud Italia. Una norma che esiste ma non è stata mai applicata. Forse serve anche qualcosa di più. «Il Sud ha le stesse cose che servono al resto d’Italia. Il problema è l’intensità delle misure. Non ha senso prendere provvedimenti identici, per le regioni meridionali devono valere doppio. Il ritardo recuperato dal Sud rispetto al resto del Paese dal 1950 al 1990 è stato completamente rimangiato negli ultimi 29 anni», spiega Monti. Una strada potrebbe essere attuare la riforma della zone economiche speciali, create formalmente due anni fa ma mai formalmente partite. Servono questi meccanismi autorizzativi iper-semplificato per collegare il Sud alle catene del valore globale. A oggi il Mezzogiorno è tagliato fuori: esprime il 24% del Pil, ma ha solo il 9% dell’export».

«Serve una terapia d’urto da parte della classe dirigente nazionale che sviluppi non solo le infrastrutture economiche ma anche quelle sociali», spiega Felice. Sarebbe il modo più agevole per far crescere l’Italia perché «il Nord è un’area densamente sviluppata in cui è più difficile avere margini di crescita sostenuta. Al Sud invece se si mettessero a posto l’amministrazione pubblica, le infrastrutture e i servizi sociali essenziali ci sarebbero potenziali di crescita simili a quelle della Spagna. E questo darebbe una spinta all’Italia tutta». Un modo veloce per ripartire potrebbe essere la riforma della gestione dei fondi europei. L’Italia è il secondo beneficiario nell’Unione europea ma a un anno dalla scadenza del bilancio 2014-2021 ha usato solo il 23% delle risorse. Circa 58 miliardi sprecati che servirebbero per rilanciare il Sud. Anche se con la scusa dei fondi europei il governo investe meno nel Mezzogiorno. «Nascono per aiutare le aree svantaggiate d’Europa e servono a tutte le regioni meridionali, ma questo ha portato il governo a dirottare i fondi nazionali in altre zone d’Italia perché tanto il Sud aveva più fondi Ue», denuncia Monti.

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