Il Partito democratico chiama a raccolta, a Bologna, sotto l’insegna «Tutta un’altra storia», intellettuali e sindacalisti, politologi e drammaturghi, illuministi e gesuiti, per mostrare il volto di un partito ancora vitale, aperto alla società, capace di riflettere e discutere, con una visione del futuro, uno slancio ideale e un’identità definita, più radicale, in linea con le tendenze che caratterizzano i grandi partiti della sinistra un po’ ovunque.
A cominciare da quei paesi — Stati Uniti e Gran Bretagna — che della terza via, la via cioè di una sinistra assai più aperta al mercato, per non dire semplicemente liberista, erano stati la culla.
Sul fatto che solo in Italia siano gli stessi protagonisti ad abbracciare ieri le tesi blairiane e clintoniane, e oggi a indicare come modelli Corbyn e Sanders, magari ci intratterremo un’altra volta, ma è un paradosso che merita di essere segnalato perché è una delle ragioni per cui il dibattito politico-culturale, a sinistra, è così ambiguo e scivoloso.
Resta il fatto che Stati Uniti e Gran Bretagna sono anche — guarda un po’ — la culla del populismo che dal 2016 ha riscritto le regole della politica occidentale, con Brexit e l’ascesa di Donald Trump (qualcuno ci aggiungerebbe anche il referendum costituzionale italiano, ma ormai è acqua passata). Ragion per cui, anche lì, ci s’interroga sull’opportunità e anche sulla giusta misura di una svolta ideologica.
Barack Obama, ad esempio, giusto l’altro ieri ha espresso la preoccupazione che un eccesso di radicalismo finisca per riconsegnare il paese a Trump. Altri obiettano che intanto a consegnarglielo la prima volta è stato l’eccesso opposto. In Gran Bretagna la svolta è in atto da tempo, e il dibattito interno al Labour è accesissimo. Ovunque si discute di lotta alle diseguaglianze e Green New Deal, rivoluzioni fiscali e nuove politiche industriali, protagonismo dello stato e regole più stringenti per il mercato.
Proprio come a Bologna. Con un’unica, piccola, differenza: che in Italia, a differenza dei laburisti in Gran Bretagna e dei democratici in America, il Pd è al governo. Una differenza che rende il taglio e il tono complessivo dell’iniziativa a tratti lievemente straniante, come registrato ieri, con crudeltà chissà quanto involontaria, dal titolo vagamente morettiano dell’Huffington Post: «Il Pd riparte dal dibattito».
Tutto bene, dunque. A parte una piccola omissione riassumibile in quattro lettere: Ilva. Sulla crisi della più importante acciaieria del Paese si fa sostanzialmente finta di nulla
Tutti quanti, a cominciare ovviamente da Zingaretti, salutano e omaggiano ripetutamente la piazza delle “sardine” che li ha così bene accolti, facendo intravedere una possibilità di riscossa, almeno in Emilia Romagna, di cui evidentemente cominciavano a dubitare.
Sarà anche per questo che alla fine sembrano tutti contenti. Zingaretti, che annuncia dal palco l’intenzione di battersi per il superamento dei decreti sicurezza e per l’introduzione dello ius soli, si mostra convinto di poter scrivere una «nuova agenda» del governo. Matteo Orfini è soddisfatto perché la successiva assemblea ha accolto i suoi ordini del giorno in tal senso. Goffredo Bettini, collegato con la trasmissione di Lucia Annunziata a margine dell’iniziativa, può dedicarsi all’analisi minuziosa dei potenziali segnali di apertura provenienti da questa o quella sottocorrente del Movimento 5 Stelle, traendone nuove ragioni di ottimismo sulla via della grande alleanza.
Unico neo, la reazione proprio dei Cinque Stelle, sulla questione dello ius soli. Al loro «sconcerto» risponde quindi un comunicato del Pd firmato Debora Serracchiani, che precisa: «Rispettiamo chi questo principio lo ritiene impraticabile in questo momento nel nostro Paese, ma creare una canizza, un polverone strumentale, solo perché il Pd dichiara di condividerlo ci sembra davvero la ricerca di una rissa continua piuttosto che l’affermazione su questi temi di un confronto pacato, ragionato e aperto». E aggiunge persino: «Perdipiù Zingaretti, nel ribadire questo principio, ha sottolineato che il Pd non ne farà una bandierina per caratterizzarsi o per imporre nella coalizione le sue idee». Ecco, non sia mai detto. Contenti loro.
Tutto bene, dunque. A parte una piccola omissione – che stride un filino con tanti discorsi su disuguaglianze e rilancio dell’economia, nuove politiche industriali e Green New Deal – riassumibile in quattro lettere: Ilva. Sulla crisi della più importante acciaieria del Paese, che nel frattempo continua ad aggravarsi e a complicarsi terribilmente (anche sul piano giudiziario), e che rischia di compromettere la tenuta dell’intero sistema industriale, si fa sostanzialmente finta di nulla. Tutto quello che dice al riguardo Zingaretti nelle sue conclusioni è che «l’Ilva non deve chiudere». Dice che questo è «l’obiettivo prioritario», da raggiungere «senza se e senza ma», e passa oltre. Non sia mai qualcuno pensasse che vuole imporsi anche su questo.
Resta la domanda, che da ultimo anche Carlo Calenda ha affidato a un tweet. «Io – ha scritto l’ex ministro dello Sviluppo economico – continuo a non capire per quale ragione non rimettono questo cavolo di scudo anche solo per avere una posizione giuridica più forte. Va al di là della mia comprensione. Giuro». Ma forse non è così difficile da capire.
Più la situazione si aggrava, più si fa legittimo il sospetto che ogni giorno, ogni ora, ogni minuto che passa, mentre disquisiscono di politiche industriali, occupazione e investimenti, ma non dicono una parola su questo, i Democratici stiano compiendo una scelta: tra tentare di salvare l’Ilva, anche a costo di mettere a rischio il governo, e viceversa.
E che stiano scegliendo viceversa.