Nel Novecento, quando ancora non avevamo cominciato a far finta che le classi sociali non esistessero, i nostri genitori, quando tornavamo a casa annunciando d’aver fatto amicizia con un nuovo bambino, ne domandavano le referenze: «Cosa fanno i suoi genitori?». Queste righe sono poste in apertura per due ragioni. La seconda è che introducono il tema delle righe successive. La prima è che, di tutti i tabù stabiliti dal club dei giusti sui social network, di tutte le cose che se le dici sei il nemico ed è inutile che ti legga, prima di tutte, prima del sospetto di maschilismo e di quello di omofobia e di quello di razzismo, la prima impresentabilità è azzardarsi a dire che le classi sociali esistono. Bisogna sapere da subito di quali lettori liberarsi, nell’epoca in cui alcuni di loro pretendono di riscattare il proletariato senza alzarsi dal divano, di riscattarlo a botte di cancelletti (facendo davvero troppo freddo per scomodarsi a prendere la Bastiglia), e di riscattarlo facendo finta che siamo già tutti uguali. Uno vale uno, me l’hanno detto nell’ora di matematica alle elementari, quindi dev’essere vero.
Mi perdonerete se nelle prossime righe analizzerò una vicenda nella quale, se non siete abbastanza saggi da astenervi dai social, sarete inciampati negli ultimi giorni, e se lo farò senza fare i nomi dei partecipanti: non voglio che la cronaca prevalga sugli archetipi ma soprattutto, dacché uno dei problemi della vicenda è “chi è amico di chi”, non voglio che chi legge venga distratto da quel che pensa dei partecipanti.
Scena prima: uno scrittore scrive un articolo prendendo per il culo le fotografie di libri coordinati a cappuccini che si vedono su Instagram; un genere che gli editori italiani, che fanno le copertine più brutte del mondo, chiaramente boicottano – ma questo lo scrittore non lo dice. Il suo è un articolo abbastanza inutile, come ne scrive decine di volte all’anno chiunque paghi le bollette scrivendo; in un mondo sano di mente, passerebbe del tutto inosservato. (Credo che lo scrittore abbia anni fa insolentito qualche mio libro; chissà se mi ero offesa).
Scena seconda: un fumettista percepito di sinistra (lo scrittore è percepito di destra: nel paese di Guareschi, è un dettaglio importante) viene citato nel suddetto articolo come uno con cui l’autore gioca a Call of Duty; come sa chiunque guardi sceneggiati televisivi in cui immancabilmente c’è un bambino che crede di giocare con un coetaneo ma sta giocando col padre che l’ha abbandonato alla nascita, l’essere compari di videogame in remoto non è esattamente come essere quello che chiami se fori una gomma alle tre di notte o se ti serve un prestito; magari poi i due sono amici del cuore, tuttavia tutto ciò che dice il pezzo è che giocano a spararsi. Per questo solo dettaglio, il fumettista viene assalito da un’orda di invasati che pretendono prenda le distanze da quell’individuo raccapricciante che ha scritto quel pezzo “sessista”. Giacché, pare, fotografare le copertine dei libri è uno sport perlopiù femminile. L’Nba è perlopiù fatta di atleti neri, quindi se domani dico che non mi piace il basket sono razzista. Per fortuna il basket mi piace, questo mese non ho proprio tempo per farmi linciare dall’internet.
Scena terza: un premio Strega (percezione: sinistra istituzionale) mette un cuoricino a un tweet in cui il fumettista dice che rifiuta di rinnegare un amico. Nota a margine: poiché la vita è sceneggiatrice, l’unica volta che io e il fumettista ci siamo scambiati due parole virtuali è stato perché lui faceva la morale a un qualche cuoricino di qualcuno, e io cercavo di spiegargli che il “mi piace” dei social non è necessariamente un apprezzamento, più spesso è un “questa cosa voglio trovarla rapidamente quando mi servirà”. Anche il premio Strega viene duramente redarguito dalla polizia del pensiero: come osi cuoricinare il fascista (“fascista” è termine che ormai contiene un po’ tutto, da “sterminatore dei dissidenti e affamatore del popolo” a “tizio che mi è passato davanti nella fila alla cassa del supermercato”). La polizia del pensiero è Tiberio Murgia che impone gli “occhi a terra”, ed essere un premio Strega non ti renderà meno Claudia Cardinale.
Scena quarta, che è quella che poi ci interessa: gli strascichi della polemica. Nei giorni successivi (l’articolo è di mercoledì scorso), gli schieramenti che si formano, contro ogni logica, diventano: destra (cui appartiene l’autore dell’articolo) contro sinistra (cui non ho capito chi apparterebbe: sono anni che sento formulare, da autori ben più presentabili, ben più feroci prese per il culo della moda di fotografare le copertine); uomini (l’orrido sessista che ha scritto l’articolo) contro donne (che pare siano le titolari del settore culturale “foto delle copertine”: da qualche parte Elsa Morante sta cercando un passaggio per venire a sputarci in un occhio). Il pensiero spacciato per femminile pare sia: questi sono i sussulti di ribellione del potere maschile, insidiato dallo spazio che ci siamo prese nel settore. Il settore sarebbe la letteratura, lo spazio sarebbe fotografare copertine (Elsa Morante è al telefono col radiotaxi).
Nel Novecento, quando non esistevano i social a rammentarci ogni giorno quante stronzate sia in grado di dire, fare, baciare l’umanità, e per ricordarci che essa perlopiù pratica lo sport delle opinioni disinformate andavamo al ristorante, un noto intellettuale bolognese una sera si stufò dei giudizi approssimativi dei suoi commensali e li apostrofò: «Se tutto quel che riuscite ad articolare è che una cosa è bella perché vi piace, finite di mangiare e andate a casa a leggere i trattati di estetica». Se oggi lo dici a una tavolata di bookgrammer, pensano tu stia parlando di qualche manuale sull’importanza dell’applicazione della crema idratante.
Il gigantesco non detto è che non è un problema di lotta tra i sessi: è, come sempre, un problema di classi sociali. Il dualismo non è tra donne e uomini, ma tra chi ha studiato e chi passava di lì per caso, tra chi sa mettere in connessione tra loro le cose che ha letto e chi sa usare la connessione wifi per mettere i cuoricini, tra chi è élite e chi è parvenu. Non ho niente contro i libri come elemento d’arredo: ho una parete di Adelphi, figuriamoci; e, in un libro che scrissi, un personaggio ordinava prime edizioni perché facevano più fino, ed era di gran lunga il personaggio più simpatico. (Tra l’altro, se fossi un’accademica, istituirei un corso per l’utile arte di fotografarsi in case in cui i libri siano decorativi ma sembrino star lì a scopo culturale; se, caro influencer, ti fotografi contro una parete di Meridiani, che tutti sappiamo essere insfogliabili senza che le pagine si sbriciolino, tanto varrebbero le enciclopedie finte di Berlusconi: il kitsch bisogna saperlo fare). Non ho niente contro i libri non sfogliati figuriamoci letti, ma essi attengono all’arredo di interni, non alla cultura (qualunque cosa significhi “cultura”). Certo, puoi bullarti del fatto che la gente dia più retta a te che esponi arredi e cappuccini di quanta ne dia allo scrittore (che ho letto definire “frustrato e invenduto”, in questi giorni, più volte di quante abbia letto di me “cessa”); ma è come se Chiara Ferragni si bullasse d’avere più cuoricini d’una foto di Loulou de La Falaise: non lo fa perché ha abbastanza uso di mondo da riconoscere uno sport diverso dal suo (faccio una pausa per permetterti di googlare madame de La Falaise, cara fotografatrice di copertine: ti aspetto, sbrìgati).
Poiché tutto quel che c’è da raccontare del mondo durante la dittatura dei social l’hanno raccontato George Orwell, Paddy Chayefsky, Aaron Sorkin, e Paolo Virzì (e tutti e quattro in opere scritte quando nessuno di noi era connesso), la miglior rappresentazione del conflitto in corso sta in Caterina va in città (2003), quando il professor Iacovoni, omino mediocre con velleità da romanziere e impiego statale, va a casa d’una nota intellettuale la cui figlia è a scuola con la sua – dettaglio che è bastato a illuderlo che la loro sia una conversazione tra pari; quando gli intellettuali con dignità di pubblicazione parlano fra di loro non esitando a fargli percepire la sua estraneità, Iacovoni intuisce che è solo perché in questo secolo si fa finta che non esistano più le classi sociali, che non è stato fatto entrare dall’ingresso della servitù; giacché nessuno Iacovoni può ammettere (a sé stesso innanzitutto) che se non lo vogliono è perché non è all’altezza, egli desume dalla propria esclusione che esistano “conventicole” il cui fine ultimo è tener fuori quelli come lui, il cui talento spaventa, il cui essere cani sciolti mette a disagio.
Siamo tutti Iacovoni: non riesco a ricordare se, quando lo stroncatore di foto di copertine stroncò i miei libri, avessi fatto ipotesi circa le sue ragioni (tutta invidia? Becero maschilismo? Se non stronca non esiste?); di sicuro non avevo ipotizzato di non piacergli proprio, giacché quello noi vanesi umani non lo ipotizziamo mai. La bookgrammer Iacovoni che si sente conquistatrice d’un mondo che la teme – e farà di tutto per escluderla e soffrirà nel vederla comunque trionfare – ricorda le zitelle che, dell’uomo che le maltratta e le trascura e le pianta, dicono: «Mi ama, ma ha paura dei suoi sentimenti» (santo cielo, che esempio sessista: occorre precisare che non ho niente a favore degli uomini, ho tanti amici uomini, sono soliti praticare una dissonanza zitellesca che non ha niente da invidiare a quella femminile).
Il fatto è che quel che rivendicano, le vestali del “ci siamo prese uno spazio con le nostre foto pastellate”, non è di essersi fatte spazio in-quanto-donne, ma è di essersi procurate una posizione in un settore senza aver studiato. La fotografatrice di copertine che si sente fotografa e pure divulgatrice culturale è come il concorrente di reality che diventa attore, come il ripetente che diventa ministro, come il non laureato che dice d’esser diventato medico. Solo che quest’ultimo (il francese che Carrère ha poi romanzato nell’Avversario) pur di non venire scoperto e sputtanato stermina la famiglia, e gli altri invece prosperano. Giacché nel frattempo è finito il Novecento e delle credenziali non frega più niente a nessuno. Bastano l’autocertificazione, e un buon filtro fotografico – per dirsi intellettuali, e per il resto.
Anche se l’incompetenza ha vinto, però, resta comunque, alla femmina (l’avete deciso voi, che è femmina: son cinque giorni che scrivete che è un articolo sessista perché fotografare copertine è uno specifico femminile) che influenza copertine, qualche filo di paglia appiccicato al retro dell’abito. È quello che la fa agitare e le fa girare video indignati e tirare in mezzo il sessismo e proclamare che ci-siamo-prese-uno-spazio. È quello che non le permette di rilassarsi e pensare che pazienza se non la considerano élite, ha comunque fregato il sistema: che prima di lei per farti accedere pretendeva fossi, della razza tua, la prima che ha studiato; il filo di paglia neanche le permette, se uno scrive che quelle lì sono delle povere sceme, di farsi una risata e pensare che le sceme guadagnano più di lui. Incidentalmente: quasi nessuno scrittore italiano, neanche quelli che “vendono bene” e che mai definireste “frustrati falliti” e di cui fotografate entusiaste le copertine, riesce a campare coi proventi dei libri; credete sia per diletto che scriviamo tutti su mille giornali, facciamo mille marchette, partecipiamo a mille sagre della porchetta? Quando vi svegliate di notte sudate perché avete fatto un brutto sogno in cui le classi sociali esistevano, e vi viene la smania da riscatto del proletariato, questo è un elemento che dovreste considerare: vale la pena far parte dell’élite, se questa appartenenza non ti risolve il problema del mutuo? Pensateci, al prossimo cappuccino che fotografate: quello che ve l’ha schiumato ha più sicurezze economiche del tizio il cui nome è sulla copertina abbinata. Per fortuna vivono in un secolo in cui i loro prodotti si equivalgono nel settore della fotogenia.